La professione educativa come  attività complessa, punto di accumulazione per una rete di concetti e di relazioni in continua evoluzione.

CHANCE !
Interveno alla conferenza regionale sulla salute mentale - Napoli 21 aprile 2001

Parola inglese o francese , ma ormai napoletanizzata “n’ata chance”. Nel linguaggio della scuola: scuola della seconda occasione.

Chance è recupero di drop out della scuola media di età tra i 13 ed i 15 anni. Strada facendo, con i cambiamenti di legge abbiamo anche realizzato l’obbligo scolastico e formativo. Di fatto si tratta ormai di  un corso di reinserimento nel circuito scolastico e formativo ripartendo dal recupero delle terza media.

MAESTRI DI STRADA

E’ il sottotitolo non ufficiale del progetto, dal nome di uno dei  progetti ‘precursori’ di cui era protagonista Marco Rossi Doria.. Significa andare dove il ragazzo sta con la mente e con il cuore ossia ripartire dai sentimenti, dalle emozioni, dalle esperienze dei ragazzi. Nel linguaggio dei servizi si dice: servizio centrato sull’utente ed a bassa soglia d’accesso. Nel nostro caso la soglia è in discesa: siamo noi che in qualche modo creiamo il bisogno, contattando il ragazzo e la famiglia e facendogli capire che può migliorare se stesso.

Metodologicamente Chance potrebbe definirsi una comunità aperta per apprendere perché ha alcune caratteristiche della comunità ossia quelle di uno spazio di vita  dove sono ospitati i corpi e le esperienze piuttosto che solo o prevalentemente l’essere pensate e cognitivo. Aperto perché non ci sono né mura né preclusioni ad alcuna forma di sapere ad alcuna modalità di apprendimento. Aperta perché vi circolano le professioni e le competenze più diverse senza gerarchie di saperi o di professioni.

Barriere, ponti, reti -

Il primo problema del lavorare in rete è uscire fuori dalla propria professione ossia da un recinto protetto. Noi lo sappiamo perché in capo ad un mese dall’inizio non sapevamo più chi eravamo: insegnanti, psicologi, sociologi, neogenitori adottivi, preti o poliziotti. Lo smarrimento di chi esce fuori dai confini dovrebbe essere tenuto presente come ostacolo quasi insormontabile a osare pratiche professionali diverse anche quando c’è una convinzione razionale e generale sull’importanza di cambiare.

Questo smarrimento è tanto più forte quanto più la professione dell’insegnare appartiene  ad uno dei tre mestieri che Freud dichiarò “impossibili”: l’insegnante, lo psicologo, il politico. Ci sono molti motivi perché questi siano mestieri impossibili. La mia versione è che si tratta di tre mestieri in cui troppo spesso ricorre il ‘de te fabula narratur’, l’essere in gioco completamente, anima e corpo. E’ l’aporia dell’insieme che contiene se stesso, del produrre qualcosa a mezzo di quella stessa cosa: produrre apprendimento apprendendo, produrre benessere attraverso il benessere, produrre socialità e politica a mezzo della socialità e dell’essere politico. E’ come tirarsi fuori dal mare afferrandosi per i capelli. In tutte queste professioni si svolge il proprio lavoro attraverso ciò che si è  prima ancora che attraverso ciò che si dice. Il ‘conflitto di interessi’ – non è assolutamente una battuta politica – ci tocca tutti. Lo sanno bene i ragazzi: l’insulto più bruciante non sono le bestemmie ai morti, gli inviti al sesso orale multiplo, le minacce di morte, ma il grido: chi sei, con quale diritto mi parli.

La contraddizione logica non può essere risolta sul piano della logica, ma sul piano della prassi. Si dice che Omero sia impazzito e morto suicida per non aver saputo risolvere l’indovinello dei pescatori (quelli che non trovo li tengo, quelli che trovo li lascio) irresolubile come quello della Sfinge perché riguarda te stesso. Il progetto Chance cerca di risolvere questa contraddizione stabilendo una circolarità e reciprocità nelle relazioni, nell’apprendimento, nell’insegnare, nel prendersi cura.

La rete in questo caso significa soprattutto mettere in contatto  conoscenze diverse, inventare continuamente nuovi giochi. La rete non  è sinergia per ‘risparmiare’ non è stare insieme per confortarci l’un l’altro, ma è soprattutto un modo di sperimentarsi e di creare nuove strategie. E la creatività non sta mai al centro delle discipline o delle professioni ma nelle zone di confine e di frontiera, sulle strade molto più che ai piani alti.

Comunità  è reciprocità nel prendersi cura

Uno dei punti cardini della reciprocità è abbandonare ogni velleità di guarigione, ogni pretesa di redenzione, ogni forma di accanimento terapeutico, pedagogico, sociale. All’inizio del mio lavoro dicevo ai miei colleghi che dovevamo assumere l’atteggiamento che si deve avere di necessità con i malati terminali: accompagnare e basta (ciò non significa che abbiamo a che fare con casi disperati, ma solo che la speranza non deve essere la nostra ma la loro). Lo aveva già detto il maestro Ekcart 700 anni prima: solo l’uomo senza speranze  può sperare, può dialogare. Se non si assume questo atteggiamento distaccato si diventa intrusivi, accaniti, si mette in gioco il proprio orgoglio professionale prima dell’interesse della persona che abbiamo di fronte. L’origine di quella che qui è stata chiamata ‘angustia’ professionale è l’orgoglio della professione che riesce a curare e guarire anche senza la tua volontà anche – e questo viene tentato – contro la tua volontà.  Nel progetto Chance il primo punto è conquistare la volontà dei nostri ragazzi, mobilitare le loro energie considerarli la prima risorsa. Mi dicono che questo si chiama ‘strategia di empowerment’. Riferisco. Anche in questo caso i ragazzi sentono tutto questo: ci scrutano e ci indagano per conoscere i nostri moventi e rifiutano come offesa una relazione di aiuto unilaterale. L’ho imparato facendo lavoro volontario: il fatto di non essere pagato, lascia aperto un conto che diventa un peso sulle spalle di chi è aiutato. Dicevo ai miei compagni di volontariato: bisogna imparare a ricevere molto più che a dare, nell’economia del dono vince chi più sa ricevere ed è offensivo non ricevere. Nell’economia dell’accumulo vince chi più sa trattenere, chi più rimane sulle sue.

Nelle relazioni e nei sentimenti questo è il principio fondamentale.

Così al tentativo di cura, al tentativo di redenzione morale e sociale, al tentativo di riscatto politico noi sostituiamo il principio del prendersi cura. Il curare è unilaterale, il prendersi cura è reciproco. Chi si prende cura di chi?  Costruire comunità non è altro che sviluppare la circolarità del prendersi cura.

Lo sviluppo umano

Come spesso accade dobbiamo fare un lungo percorso per passare da formulazioni negative a proposizioni attive. Dire ‘lotta all’esclusione sociale’ non basta, diciamo allora ‘inclusione sociale’? Ma neanche questo basta. Inclusione e reclusione sono foneticamente pericolosamente vicine. Lo abbiamo imparato: la difesa dell’infanzia è anche difesa dall’infanzia, intervento per “prevenire” la reclusione costruendo recinti morali che evitino lo spettacolo indecoroso della reclusione fisica. Ancora oggi devo sistematicamente difendermi dall’idea che il nostro intervento sia preventivo rispetto ad una ipotetica galera. I ragazzi sono a rischio di coinvolgimento nelle attività criminose come recita il testo della legge 216. I ragazzi che conosco sono a rischio solo di essere massacrati ancor più di quanto non lo siano stati finora. (e sappiamo bene che chi ha subito violenza e frustrazioni genera a sua volta violenza, ma ciò è conseguenza dell’essere rinchiusi in situazioni senza uscita che non si risolve con ulteriori chiusure). Il nostro intervento deve servire, come recita la legge Turco ad agire diritti e creare opportunità per gli adolescenti. Il nostro intervento deve servire infine per lo sviluppo umano del territorio. Solo se il territorio si presenta come una rete accogliente di relazioni umane positive si sviluppa quella circolarità di cui ho parlato all’inizio, che garantisce la permanenza del prendersi cura e la partecipazione non come inclusione di un parte debole o malata dentro una parte pretesa sana, ma come espressione di un contratto sociale paritario.

Pensieri complessi per azioni specializzate

Qui si chiude il cerchio. Ripeto spesso che già il parlare di comunità al plurale non funziona, che esiste la comunità, quella dentro cui tutto si svolge, quella dentro cui non è possibile cadere fuori perché il fuori non c’è. Ma qui nasce una nuova aporia, contraddizione logica: se è la comunità ad essere depositaria delle azioni positive, prosociali, viene a cadere ogni specificità, non c’è più una sede specifica di lavoro.  In quale ghiandola risiede il pensiero se è una attività dell’intero cervello?  Proprio in questi giorni mi sto occupando di questa contraddizione a proposito della riorganizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione: dove collochiamo gli interventi contro la dispersione scolastica? Se si tratta di una funzione sistemica possiamo distribuirla un po’ dappertutto come il buon prezzemolo che va bene per ogni minestra,oppure – come propongono gli innamorati dello spirito di sistema e del pensiero totale – eliminarlo del tutto visto che si tratta di una funzione e non di un organo. Oppure affidiamola ad un ufficio, così almeno qualcuno se ne occupa.

Il problema  anche in questo caso è che è difficile mettersi in rete anche all’interno della stessa istituzione anche all’interno dello stesso piano dell’edificio, è difficile agire in modo specializzato avendo presente la complessità del sistema. In realtà qui si manifesta anche la contraddizione tra le modalità della prevenzione e le modalità della cura: la prevenzione è necessariamente sistemica e diffusa, la cura è necessariamente puntiforme e locale. Possono queste due cose entrare in relazione? La storia della pedagogia ci ha insegnato che sistematicamente da esperienze  nell’ambito delle patologie e della cura si sono tratte conoscenze per il funzionamento dell’intero sistema. Questo quindi è possibile se si sviluppano prassi adatte al trasferimento continuo di conoscenze dagli interventi specifici alla generalità del sistema. Per questo noi consideriamo il gruppo di lavoro e di intervento anche un gruppo di ricerca  e come ricercatori ci comportiamo dando luogo anche ad una produzione scientifica ed a comunicazioni come questa che servono a generalizzare le pratiche migliori.

Questo infine rimanda ad un altro problema: quale relazione deve esserci tra il sapere indigeno e quello straniero. Questa è  l’immagine che uso per descrivere una contraddizione, di cui si è  parlato anche qui, tra saperi empirici e discipline scientifiche. La scienza estrae dal linguaggio comune le parole e ne fa un uso specializzato, espressione di concetti, di idee chiare e distinte. Il linguaggio scientifico è potente e generale perché ha compiuto questa operazione, ed è uno strumento di generalizzazione assolutamente insostituibile. Ma troppo spesso ci si vergogna delle proprie origini. L’inventore dell’alfabeto – se di uno si trattasse -  è un analfabeta. Il sapere scientifico – diceva Galilei – l’ho appreso dagli operai dell’arsenale. Il sapere indigeno è quello che si sviluppa a contatto con la prassi quotidiana, che si intreccia con vissuti e sentimenti, che è felicemente impuro e non chiaro. Il sapere estraniato è quello della riflessione che distilla idee e concetti, che cerca di liberarsi dai ceppi dell’urgenza e del contesto d’azione. E di questo noi abbiamo bisogno, ma deve essere chiaro chi ha in mano le redini. Quando abbiamo fatto il nostro contratto con l’Università abbiamo chiarito questo punto, che non chiedevamo consulenza, che c’era ‘partenariato’ (mi avete insegnato voi questa parola che non conoscevo) ossia “progettare assieme fin dall’inizio”. Che eravamo noi i datori di lavoro. Così rispondo anche ad una obiezione che  mi è stata scherzosamente posta, sono libero anche di fare contratti prescindendo da preclusioni ideologiche o accademiche, perché il contratto garantisce una relazione con la prassi tale per cui teorie ed opzioni che contrastano con la buona pratica o si modificano o sono messe fuori gioco. Viceversa diffido fortemente di alleanze e collaborazioni verificate solo a priori da affinità ideologiche o accademiche. Tra il negozio del parente e le pagine gialle  ho sempre preferito queste ultime.

Questo principio fa parte anche della nostra metodologia didattica: noi rifiutiamo l’idea di una prassi cieca che è alla base di tanti progetti di redenzione sociale attraverso il lavoro. Viceversa la prassi, - con poche parole, perché i nostri ragazzi non sopportano il parlare - è la base di ogni riflessione ed i ragazzi costruiscono il sapere scientifico e di sé riflettendo su ciò che fanno aiutati da chi, come i docenti, sa alcune altre cose.

La professione è attività complessa, punto di accumulazione per una rete di concetti e di relazioni in continua evoluzione.

Costruire la scienza è quindi imbrigliare la realtà dentro sequenze lineari, costruire una professione significa invece svolgere il movimento opposto dalla linearità alla complessità, dalle specializzazioni disciplinari e dai linguaggi specialistici ai linguaggi delle professioni. Una professione è plurale e complessa per definizione, ha da fare i conti con gli effetti di campo, con il contesto d’azione e nulla rimane di incontaminato. Nel nostro lavoro e nel vostro c’è un intreccio inestricabile di competenze afferenti alle tre professioni impossibili: non è dato apprendere al di fuori un contesto di benessere psichico e fisico, al di fuori di buone  relazioni sociali. Non c’è alcun intervento sociale che non debba utilizzare l’apprendimento per mobilitare energie psichiche interne e risorse di gruppo; non c’è alcun intervento terapeutico che non debba usare l’apprendimento come strumento per curarsi e come strumento per il miglioramento delle relazioni. Quella che qui è stata chiamata ‘angustia professionale’ è il riduzionismo scientista che appiattisce la professione su un solo sapere specialistico in essa prevalente. Angustia professionale è anche quella del ragazzo che ha imparato a leggere scrivere e far di conto  in modi accettabili, ma che giunge a diciotto anni in condizioni di inoccupabilità, perché è stato scacciato da ogni contesto  sociale, di gioco, di vicinato di amicizia. Quando la scuola finiva a quindici anni si faceva finta di ignorare cosa accadesse dopo. Ora arrivando fin a18 anni non posso ignorare cosa accadrà ad un ragazzo che non può trovare occupazione neppure dal gommista che lavora sul marciapiede sotto casa sua che lo ha già scacciato. Io credo che un giovane in queste condizioni viva una realtà patogena, in cui una condotta depressa o deviante sono inevitabili ed il rischio di consolidamento di entrambe queste opzioni in una vera e propria patologia sono elevati. Io non vedo altra soluzione in questi  casi che anticipare ad oggi il provvedimento di domani: aprire cooperative sociali per giovani affetti in modo conclamato dal virus della inoccupabilità. Forse in queste cooperative, con dosi a scalare, possiamo accompagnare il giovane a costruirsi una posizione economica, o forse  dovremo accompagnarlo per tutta la vita ma in una condizione che  sia accettabile per lui e per la società. Questo è uno dei motivi per cui mi trovo qui, per incontrare interlocutori capaci di fornire un concreto contributo in questa direzione.