Fiducia nelle istituzioni, fiducia nelle persone, fiducia in se stessi.

Il principale problema che deve affrontare Chance nella sua relazione con gli allievi e le famiglie è rappresentato dalla difficoltà di costruire una relazione con i giovani in una situazione in cui questi per molti versi hanno avuto relazioni fortemente deludenti con gli adulti e di conseguenza anche con le istituzioni e le loro regole.
La posizione emotiva dell’apprendere è per molti versi collegata alla fiducia: fiducia nella possibilità di ricevere nutrimento, fiducia nella possibilità di essere difesi e sostenuti. La fiducia di poter essere nutrito dal genitore si allenta nel momento in cui questo ha un atteggiamento distratto, preoccupato, invaso da angosce circa la propria sopravvivenza. E’ questa la situazione in cui si trova il genitore coinvolto in attività criminali, in costante stato di allerta per  i possibili attacchi da parte di nemici diffusi, o da parte delle forze dell’ordine. I bambini che vivono queste condizioni, come dicono  gli operatori addetti, vivono una situazione di “sfascio del focolare domestico” che offre loro uno spettacolo di precarietà  ed incertezza circa il sostegno della cura parentale ciò che è alla base di ogni altra precarietà e sfiducia.
E’ proprio la sensazione di essere indifesi e in balia di eventi incontrollabili che rafforza le spinte alla dipendenza e trovarsi una protezione di tipo ‘militare’ in assenza di una protezione di tipo parentale. Abbiamo osservato negli adolescenti coinvolti nelle faide criminali, una spinta ad armarsi, a cercarsi un coltello o una pistola che era direttamente proporzionale alla paura per la propria incolumità fisica e insieme collegata al timore che il genitore non fosse adeguato a difenderlo. La spinta a cercarsi la protezione del criminale veramente forte è collegata all’inadeguata protezione offerta dal genitore. Così i figli degli strati bassi della criminalità costituiscono un ‘esercito industriale di riserva’ per le bande vincenti ed in crescita. In molti casi abbiamo osservato che il reclutamento è particolarmente attivo tra gli orfani delle guerre di camorra.
Che cosa succede quando un bambino e poi un ragazzo con questi vissuti si trova nell’ambiente scolastico?
Negli strati alti della criminalità i genitori qualche volta riescono a tenere i figli fuori dalle proprie attività e si danno molti casi in cui i ragazzi addirittura frequentano scuole private o comunque di tipo ‘semiconvittuale’ proprio per tenerli  “fuori del giro”. I bambini che frequentano le scuole pubbliche delle zone più degradate sono quelli delle fasce criminali più deboli che non sono in grado di investire emotivamente in progetti di grande portata. Questi genitori vivono la scuola come obbligo e come intrusione e al massimo come utile parcheggio e trasmettono ai figli il senso della loro sfiducia in una istituzione verso la quale non sono in grado di operare alcun investimento. Ciò che abbiamo rilevato spesso nel nostro lavoro è l’assenza di qualsivoglia progetto di vita, incapacità di investire sul proprio futuro e su quello dei figli.  Così comincia per il bambino una vita scolastica che porta con sé i segni della precarietà e della sfiducia fin dai primi giorni: i bambini arrivano a scuola in ritardo, si assentano frequentemente, sono trascurati nel corredo, non hanno capacità di attenzione, si sentono fortemente inadeguati e manifestano le proprie difficoltà con atteggiamenti aggressivi verso i compagni, tendono a investire gli insegnanti di relazioni fortemente ambivalenti: da un lato cercano una relazione di tipo parentale, e quindi sono preda di gelosie devastanti nei confronti degli altri allievi-fratelli, dall’altro negano l’attaccamento all’insegnante – che sentono come tradimento dei genitori propri – assumendo atteggiamenti aggressivi anche nei confronti di questo. Insomma il bambino che entra in un ambiente scolastico si trova  in una situazione emotiva molto difficile per la competizione immediata tra una organizzazione che comunque trasmette il senso di protezione e di cura analogo a quello parentale, e una organizzazione familiare caratterizzata da precarietà e da scarsa affidabilità.  Contemporaneamente i rappresentanti concreti dell’istituzione – come è nello statuto della scuola – si negano a una relazione più coinvolgente e quindi finiscono per deludere aspettative eccessive dei bambini nei loro confronti. Spesso questo negarsi “statutario” ad una relazione di ‘adozione’  si accompagna a comportamenti personali o istituzionali che alimentano il senso di precarietà nella vita dei ragazzi: gli insegnanti di periferia hanno una alto tasso di avvicendamento ed un alto tasso di morbilità, per cui un bambino sperimenta il cambio continuo di docenti tra una anno e l’altro e lunghi periodi di assenza dei docenti sostituiti da supplenti nei periodi più lunghi, sostituiti dalla ‘divisione nelle altre classi’ nei periodi più brevi. In questo modo l’organizzazione scolastica riproduce senza volerlo i modelli di precarietà e di inaffidabilità propri della famiglia e rafforza una posizione di dipendenza aggressiva dall’autorità. In bambini e ragazzi esposti a questo tipo di forze emotive è possibile osservare in età precoce la tendenza ad affiliarsi ad un esercito: spesso – anche i figli di criminali – dicono di voler fare i poliziotti o i magistrati e ripongono in queste organizzazioni una fiducia mitologica circa le possibilità di fare giustizia e riequilibrare i conti rispetto ai torti che ritengono di aver subito. Nei ragazzi più grandi questa fiducia esagerata si trasforma ben presto in sfiducia aggressiva, in attenzione ossessiva verso i comportamenti delle forze dell’ordine e dei magistrati. I casi di corruzione, vera o presunti, di cattivo comportamento di singoli appartenenti alle istituzioni  dello Stato sono passati al vaglio, memorizzati, ed usati sistematicamente per giustificare i propri cattivi comportamenti e per decidere infine che tra gli eserciti contendenti la legge feroce, ma ferrea e rigorosa, della camorra è comunque più equa di quella di uno Stato che si ritiene contemporaneamente imbelle ed iniquo.
Su questa dinamica si innestano comportamenti del corpo docente che sono decisamente inadeguati a rispondere alle potenti esigenze di rassicurazione che pongono questi ragazzi. Spesso gli insegnanti hanno una estraneità impaurita ed aggressiva nei confronti degli ambienti criminali, hanno una idea falsa ed esagerata della potenza di questi, non sono in grado di comprendere le richieste di aiuto che si nascondono dietro le aggressività, qualche volta hanno atteggiamenti sprezzanti, altre volte temono per la propria incolumità, spesso sono oggetto di minacce dirette, aggressioni verbali o fisiche, si sentono abbandonati e indifesi quando vedono l’edificio scolastico oggetto di furti, aggressioni, incendi, devastazioni. Gli insegnanti stessi quindi non sono in grado – sul piano emotivo – di trasmettere adeguata fiducia nelle istituzioni perché essi stessi non si sentono sufficientemente protetti da chi detiene il potere. Spesso quindi l’organizzazione ed i comportamenti della scuola sono intrinsecamente espulsivi nei confronti dei ragazzi che arrivano a scuola con carichi emotivi tropo pesanti da poter essere retti da questa. C’è una geografia della dispersione scolastica che ricalca fedelmente non solo la geografia della emarginazione sociale ma anche la geografia della distribuzione delle scuole con minore capacità complessiva di accoglienza. In una delle prime indagini su approfondite (CENSIS 1982) sulla dispersione in Italia vennero costruirti due indicatori, uno riguardante il ‘rischio educativo’ costituito dagli indicatori sociali (livello di istruzione, di disoccupazione, indici di criminalità etc…) l’altro riguardante il ‘disagio scolastico’ ossia le condizioni del servizio scolastico (doppi turni, edifici adattati etc..)  venne rilevato (IRSAE Campania 1984)  che nei quartieri della città più emarginati entrambi gli indici erano ai massimi valori: ossia le scuole inadeguate erano più presenti dove c’era più necessità di scuole efficienti.  Un ragionamento simile può essere fatto per gli atteggiamenti e la cultura dei docenti. Oggi a fronte di un indubbio miglioramento delle condizioni materiali degli edifici ( in parte dovuto anche al calo demografico)  non abbiamo ancora un soddisfacente miglioramento delle capacità emotive di accoglienza. Nella geografia della dispersione si nota che in alcune zone di periferia in cui ci sono state insistenti e lunghe azioni di lotta alla dispersione c’è un consistente calo della dispersione visibile ( ad esempio nella zona orientale di Napoli ed in misura minore nella zona nord di Napoli); a questo corrisponde la maggiore presenza di insegnanti motivati, la maggiore presenza di azioni motivanti da parte delle autorità comunali e scolastiche. Spesso in periferia, a causa dei meccanismi di assegnazione delle sedi, capitano insegnanti più giovani che appartengono ad una cultura pedagogica più moderna ed attenta, ed anche insegnanti che provengono dallo stesso quartiere  e questo aiuta la comprensione delle esigenze dei ragazzi. Nel centro storico di Napoli permane uno zoccolo duro di evasione scolastica che corrisponde anche ad una situazione in cui la convivenza negli stessi quartieri e nelle stesse scuole di ceti sociali agiati e di ceti fortemente emarginati non si è mai risolta in integrazione ma è esposta a dinamiche fortemente espulsive prima nel sociale poi nella scuola.  Ogni anno – secondo i moduli di segnalazione dei dispersi irriducibili raccolti dall’Osservatorio sulla Dispersione Scolastica)– ci sono nella città di Napoli circa 800 tra bambini della scuola elementare e ragazzi delle scuole medie che sono  completamente fuori del circuito scolastico mentre altre migliaia hanno con questo un rapporto difficile e precario.
Sono questi i casi in cui la dinamica di reciproca sfiducia e di espulsione ha avuto il sopravvento, ed è tra questi ragazzi che il progetto Chance recluta i propri allievi.
Come fare quindi a ricostituire la fiducia con giovani e con famiglie la cui storia di emarginazione e degrado ha profondamente minato innanzi tutto la fiducia in se stessi e quindi in tutto quanto offre la vita urbana e una società complessa per vivere meglio la propria esistenza.
Nella nostra sommaria analisi abbiamo visto che la catena della sfiducia istituzionale coinvolge anche la stessa istituzione. Per noi il primo e fondamentale punto è la costruzione di un nucleo di docenti fortemente motivato, che abbia una forte e reciproca fiducia in se stesso e che sia in grado di reggere le tempeste emotive relative all’impatto con i giovani e relative a comportamenti distratti, incoerenti, disconfermanti delle autorità; relative all’invidia, alla competizione, alle distruttività messe in atto da docenti frustrati da difficoltà emotive ed operative insormontabili nei contesti scolastici ordinari e che vivono con risentimento l’esistenza di progetti  speciali come il progetto Chance soprattutto quando sembrano avere successo e godere della protezione di alcune autorità.
Quando per la prima volta ci siamo presentati all’equipe del prof Valerio, questo ha sottolineato immediatamente la difficoltà dell’impresa e la necessità di una lunga preparazione di una equipe che affrontasse la complessità dei temi. Abbiamo risposto che ci sentivamo di affrontare la sfida anche a pochi mesi di scadenza perché in realtà esisteva nel vasto corpo degli insegnanti napoletani un numero significativo di docenti che aveva già sperimentato – in condizioni precarie ed investendoci personalmente – azioni significative ed efficaci di lotta alla dispersione e che noi stessi eravamo testimonianza di questo. Con l’inizio del progetto Chance quindi abbiamo lanciato a noi stessi questa sfida: trasformare un impegno personale di alcuni in un metodo in grado di produrre coesione, motivazione e forza di contenimento in docenti che non dovevano essere “naturalmente” dotati di eccezionale tenacia e forte personalità.
In altra sede ( articoli di Età evolutiva) è stato descritto il modo in cui attraverso gruppi di discussione si sia costruita la capacitò di tenuta emotiva da parte del gruppo dei docenti ed educatori. Il problema specifico che affrontiamo qui è come questa fiducia in sé del gruppo docente possa essere trasferita  ad un gruppo di adolescenti a rischio frustrati da precedenti sconfitte e in un ambiente sociale ed istituzionale intrinsecamente ostile e attraversato da forti dinamiche espulsive.

Il concetto più importante di cui abbiamo fatto uso è quello di “alleanza educativa”. Per analogia con l’alleanza terapeutica occorreva scoprire nei ragazzi e nelle famiglie nuclei positivi a cui agganciarsi per cominciare un’azione di ricostruzione e soprattutto fare in modo che tale scoperta fosse condivisa da essi stessi. L’esistenza di nuclei positivi è per noi essenziale per ricavare il primo spazio entro cui possono muoversi la parola ed il pensiero. Esistenze invase dal dolore, dalla rabbia, dalle frustrazioni, dalla disistima di sé non sono in grado neppure di formulare un progetto, non sono in grado di dirigere i propri pensieri, sono sistematicamente in preda ad agiti irrefrenabili. L’alleanza educativa consiste quindi nella verifica della possibilità di usare la parola ed il pensiero che sono gli attrezzi fondamentali del docente  e del giovane che costruisce se stesso come persona adulta e responsabile. Per fare questo dovevamo essere in grado di accogliere pienamente tutti i vissuti di frustrazione e di sofferenza dei ragazzi e delle loro famiglie ed essere quindi un contenitore sufficientemente strutturato e connesso da poter reggere il forte impatto emotivo di tale accoglienza.
I colloqui di accettazione dei ragazzi sono stati più volte ristrutturati nel tempo fino a diventare un complesso rituale che  trasmette fiducia e rassicurazione a monte della parola. C’è un accurato studio della prossemica, delle frasi con le quali si interloquisce, dei modi di discutere ed approfondire i materiali osservativi tratti dai colloqui che ha il duplice effetto di creare nello spazio interno degli operatori un posto per ‘accettare’ il nuovo allievo, e di far scoprire all’allievo uno spazio interno disponibile per essere abitato dalla nuova relazione con un gruppo docente affidabile. Un lavoro analogo e parallelo si realizza con le famiglie. Si tratta di un processo lungo in cui sono essenziali tempi lenti per la maturazione della nuova situazione emotiva  e che ha il compimento a circa un mese dall’inizio delle attività con la stipula di una contratto formativo in cui la presenza in calce al medesimo documento e sullo piano delle forme del docente, dell’educatore, del genitore, dell’allievo, sancisce l’alleanza e il vincolo che deve tenere uniti  gli operatori della nuova relazione.
Il lavoro di tutto il successivo anno di attività consiste essenzialmente in quello che chiamiamo la manutenzione del patto formativo, ossia delle sue trasformazioni in relazione alla crescita effettiva dei giovani e/o alle numerose violazioni del patto stesso. Cosi sono stati costruiti una serie di strumenti di autovalutazione e controllo: la verifica dell’impatto emotivo di ciascuna giornata,: ogni ragazzo appone un “si” o un “no” accanto alla firma di frequenza per dire se si sia trattato di una giornata buona o meno; il portafoglio che consiste nell’accumulo accurato e ragionato di tutti i prodotti della propria attività didattica e creativa; lo spazio della comunicazione artistica ed espressiva, lo spazio della parola con i circle time, l’addestramento emotivo a sostenere colloqui prove ed esami consistente appunto in simulazioni di esami  e numerosi piccoli e grandi costrutti pedagogici che ribadiscono da una lato la presenza di una istituzione in grado di contenere e sostenere dall’altro che esistono  nei giovani allievi le energie e la capacità per sostenere lo sforzo necessario ad integrare aspetti diversi e contraddittori del proprio sviluppo emotivo e cognitivo.
Che questo approccio si a efficace lo dimostrano alcuni dati di fatto importanti: un numero consistente di allievi dopo questo impatto iniziale prende a frequentare con regolarità e puntualità la scuola e lo fa in modo permanente; circa il 90% degli allievi supera la prova di esami organizzata con una commissione prevalentemente esterna al corpo docente e presieduta da un dirigente indipendente dalla organizzazione del progetto. Oltre la metà degli allievi nonostante le numerose contraddizioni della organizzazione istituzionale degli anni successivi alla terza media e nonostante le insufficienze del nostro modello pedagogico  per questa parte del percorso formativo, si impegna anche nel secondo anno di studio, una percentuale consistente ha raggiunto anche un titolo professionale al termine di un percorso che è durato complessivamente quattro anni.
I casi di insuccesso, parziale in quanto interviene comunque dopo un successo quasi totale al primo anno,  sono legati al sopravanzare di pressioni sociali potenti e bisogni materiali rispetto ai quali la nostra organizzazione è ancora fragile: gravidanze in giovanissima età (circa 40 casi in otto anni di attività), inizio precoce di attività lavorative precarie e senza le garanzie di legge, emigrazione della famiglia; in pochi casi (circa dieci) di un riassorbimento nelle file dell’illegalità.
In conclusione quindi possiamo dire che ripristinare un clima di fiducia istituzionale è possibile se all’interno della istituzione si costituisce un gruppo dedicato in grado di rinforzare innanzi tutto la fiducia degli operatori nelle istituzioni e quindi nella propria capacità di far fronte a difficili spinte sociali ed emotive; è possibile inoltre se questo gruppo si propone come contenitore e supporto emotivo a giovani sfiduciati in sé e se il medesimo gruppo è in grado di riaccendere nelle famiglie la speranza di un miglioramento di sé attraverso l’investimento educativo nei figli. Tale gruppo operativo, deve essere anche in grado di sostenere le inevitabili frustrazioni legate all’esistenza di istituzioni che non sono ancora sufficientemente solide e che sono esposte a ondate emotive derivanti da gestioni politiche avventurose ( valga per tutte la pesante altalena di indicazioni  riguardanti la formazione professionale, e l’orientamento al termine della scuola media) o da ondate emotive legate ad allarmi sociali gestiti dai mass media per fini certamente non educativi.

 
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