E' giusto e possibile combattere l'emarginazione?

Posto in questi termini può sembrare un interogativo retorico. In realtà il dubbio ci assale soprattutto quanto assistiamo alla difficoltà dei nostri giovani a uscire fuori da una condizioe di emarginazione.

Ciò che a noi appare una meta desiderabile che pone oggettivamente in una condizione di maggior benessere, quando - in seguito al lavoro educativo - si rivela come una meta raggiungibile in realtà pone ai giovani drammatici interrogativi, quasi una scelta di campo in cui da un lato c'è il mondo degli affetti e delle relazioni 'vicine' dall'altro c'è il mondo retto dalle regole civili che presentiamo come impersonali ed oggettive ed il grado di spaesamento in questo nuovo mondo può essere tanto grave da indurre un rapido ritorno alle origini. Il fenomeno della 'anomia sociale', tra i primi studiati dalla moderna sociologia, evidenzia quanto sia dura la condizione di coloro che professano una 'fede' diversa da quella dell'ambiente in cui vivono. Sottovalutare la componente emotiva dei processi di emancipazione porta a cocenti sconfitte. Tale sottovalutazione è una sorta di malattia professionale degli educatori più motivati, in cui l'ansia liberatoria sopravanza la pazienza educativa che consiste nel rispetto dei tempi propri dei giovani. Sotto questo aspetto si potrebbe parlare di una accanimento pedagogico del tutto analogo a quello terapeutico: cercare il cambiamento ad ogni costo anche quando l'interessato non lo condivide. L'interrogativo quindi non è retorico e deve servire ad ogni educatore per usare la giusta misura tra proposte di emancipazione e rispetto delle radici e della psiche di coloro che devono emanciparsi.

Negli appunti che seguono alcune considerazioni da punti di vista divesi della complessità del lavoro educativo per promuovere la cittadinanza dei giovani

  1. "Emarginazioni primarie" ci richiama all’essenza umana della emarginazione e al rischio di fermarsi alla superficie sociale di un fenomeno che in realtà riguarda l’essenza stessa di una struttura sociale.
  2. "Volontà violate" ci ricorda che nell’incontro con l’altro c’è la possibilità di violenza epistemica, ossia di forzare chi è in posizione più debole ad assumere il punto di vista del più forte. E questo vale forse a maggior ragione per chi vuole stabilire una relazione d’aiuto.
  3. “Il vero, il bello ed il bene” sono i tre obiettivi semplici ed elementari che H. Gardner dopo trenta anni di sperimentazioni pedagogiche ripropone come obiettivi da non perdere di vista dietro pesanti apparati didattici

Alla ricerca di una possibilità di parola per i subalterni

“Il vincitore vive il proprio sogno, il vinto il sogno altrui” Simone Weil, Venezia Salva

Volontà Violate (da una intervista con Clelia Bartoli)

Una studiosa indiana – Gayatri Chakravorty Spivak – scrisse alla fine degli anni ‘80 un saggio, divenuto celebre, in cui proponeva il seguente quesito: can the subaltern speak? (possono parlare i subalterni?)
Soggetti esposti a condizioni di oppressione ed emarginazione talmente gravi da non godere pienamente di diritti di cui sono formali detentori, non solo a causa di limiti esterni, ma per un’interiorizzata convinzione che la loro posizione sia naturale e addirittura giusta, potranno mai elaborare discorsi utili a un loro riscatto o le loro parole non faranno altro che rafforzare sempre di più i legami che li costringono? Vi è un modo che permetta ai subalterni di recuperare uno spazio della parola liberato dalla violenza epistemica? (continua)

Ci sono dei modi per sostenere e organizzare discorsi propri, fuori dallo schema vincente/perdente.
I subordinati possono produrre discorsi propri, ma non all’interno della logica di dominio esistente. O danno luogo a un modo differente di costruire il pensiero oppure non saranno in grado di esprimere parole e pensieri propri. Non si devono semplicemente esprimere: devono produrre contenuti e unitamente modalità diverse di relazione.

Una delle prime attività a tal fine è “ristabilire lo spazio del pensiero”. Ristabilire lo spazio del pensiero significa che nell’animo ci sia almeno una zona pacificata in cui il pensiero riflessivo sia reso possibile, protetto da quelle cruente battaglie di pensieri distruttivi così ben descritti nell’esordio dell’Iliade (l’ira funesta e ciò che segue) ed in tanti altri passi. I territori dell’animo corrispondono – in modi tutti speciali, personali e difficili da indagare – ai territori delle relazioni; la possibilità del pensiero riflessivo corrisponde alla possibilità di conversazione; la disputa tra persone corrisponde al confronto di pensieri.

I nostri ragazzi sentono oscuramente che noi siamo portatori di violenza epistemica, di uno sconvolgimento del loro assetto di pensiero e ci salutano dicendo “chiur’o cesso” e cioè “chiudi quella bocca-gabinetto”.
La possibilità di pensiero nasce nello spazio che c’è al centro di un cerchio di discussione, un cerchio fatto di persone che hanno reciproca fiducia e reciproca disponibilità a condividere. In questo cerchio vengono alla luce le preoccupazioni, le sfiducie, le ansie ed insieme si cerca di lenirle. Occorre che ciascuno sia protagonista di una presa di potere sui propri mezzi di pensiero e questo può avvenire solo in un contesto di incoraggiamento sociale in cui conta molto la presenza di adulti che a loro volta siano capaci di governare il pensiero. (continua)

Nel pensiero esiste un processo di apprendistato come nei mestieri materiali e l’apprendistato si caratterizza non per la frontalità professorale, ma per l’accompagnamento esperto. In tutto questo, come è evidente, ha un ruolo centrale la parola. Lo spazio della parola precede lo spazio del pensiero, deve essere possibile nominare qualcosa per poterla pensare.
La parola è insopportabile quando evoca oscuri sentimenti; quando non è discorso ma coacervo di parole che si scontrano ed evocano dolore non elaborato, grumi di sofferenza indicibile. La parola apre la strada alle emozioni ed ai sentimenti che attraverso essa possono venire alla luce e circolare; diversamente le emozioni agiscono nell’ombra producendo interdizioni e blocchi del pensiero. C’è un solo modo di insegnare la parola: usandola. (continua)

La parola è creativa o non è. Nella scuola il più delle volte la parola non si usa ma viene abusata, ossia prostituita all’affermazione di potere, asservita alla funzione di veicolare conoscenze prestabilite e precotte, difficilmente viene usata in modo creativo, difficilmente viene usata la parola persuasiva ed efficace. L’artigiano per poter insegnare il proprio mestiere deve mostrare all’apprendista ciò che sa fare; chi vuole insegnare la parola dovrebbe mostrare come si usa nel concreto e non solo negli esercizi precotti, nelle domande ‘illegittime’ (quelle false domande di cui si conosce già la risposta e il cui unico scopo è verificare le capacità replicanti dell’interrogato). I nostri momenti di discussione libera in piccolo gruppo, i momenti di assemblea generale, la didattica dialogata e conversata sono occasioni in cui docenti si muovono senza reti protettive, in cui devono dimostrare a se stessi e agli altri di saper bene usare lo strumento di cui si propongono come esperti. (continua)

Ma più concretamente quali sono le tecniche o le strategie per creare lo spazio della parola, per stimolare la parola creativa?
Tra le tecniche che usiamo per poter acceder alla parola c’è l’uso – come si dice in didattichese – dei linguaggi non verbali, dell’arte e dell’arte figurativa in particolare. I nostri ragazzi si esprimono naturalmente nella forma astratta piuttosto che nella forma figurativa: macchie di colore, segni che si intrecciano, forme irriconoscibili. In questo modo, spesso in modi straordinariamente efficaci raffigurano in realtà stati d’animo ed emozioni. Qualche volta, mentre dipingono, canticchiano o parlottano, qualche volta siamo noi a chiedere di fare una ‘pittura parlata’ ossia dire ciò che stanno facendo. In questo modo incomincia ad emergere una parola autentica, legata ai sentimenti più profondi. Analogamente si cerca di sviluppare la parola per descrivere esperienze realmente svolte, per commentare fotografie da loro stessi scattate. Insomma nel modo più concreto costruiamo insieme gli spazi, le occasioni, per parlare. (continua)

Questa è l’idea di un pensiero non subalterno, ossia di un pensiero che non sia originato dalla ripetizione di formule – ancorché giuste – dette da altri, ma un pensiero che rimanga in contatto con il calore vivo dell’esperienza propria, dei sentimenti profondi. È l’idea che esista un pensiero indigeno legato alle esperienze ed un sapere straniero legato all’assimilazione con chi comanda. Il pensiero indigeno non è il pensiero spontaneo ma al contrario è un pensiero altamente riflessivo, capace di connettersi agli strati profondi della propria coscienza. Gli esaltatori della spontaneità popolare scambiano per spontaneo il pensiero automatico, quel pensiero irriflesso che porta a ripetere ciò che è socialmente conveniente e accettato. Il nostro “filosofo” Totò diceva: “lei parli come bada”, ossia il conformismo consiste nel badare prima alla convenienza e poi parlare. (continua)

In conclusione, i subalterni possono parlare quando abbiano intrapreso un vero e proprio percorso iniziatico che li deve portare in contatto con la propria sofferenza e con la capacità di nominarla. Senza presa di coscienza della propria sofferenza c’è solo falsa coscienza, reificazione del pensiero in oggetti estranei a sé, replicazione del mondo e non interpretazione di esso. (continua)

In un progetto simile al nostro che si svolge nel nord Europa, i progettisti hanno stabilito che dell’équipe di intervento deve far parte un artista. In un’indagine sulla dispersione scolastica condotta tra persone che non si occupano professionalmente del problema, alla domanda quali professioni inserireste in un’équipe di intervento, hanno indicato un poeta o comunque artisti come figura chiave. (Fabbri, D’Alfonso, La dimensione Parallela, Erickson, 2003, cfr. testimoni 4, 13 e 14)
La poesia e l’arte possono essere il primo passo per esplorare le zone dell’essere chiuse all’accesso della parola servile e per fondare un pensiero critico.

Emarginazione nell'animo è uno stato di passività che origina altre emarginazioni

L’esclusione scolastica è solo anello di un processo complessivo di ritiro da una relazione positiva con il mondo; il cammino dalla passività alla depressione è breve; così come il cammino dalla passività alle dipendenze; e così pure il passaggio dalla passività all’obbedienza cieca al branco o ad un capo malavitoso.

(Appunti (in corsivo) e riflessioni relative ad un intervento della prof. Edda Ducci
- Università degli Studi Roma Tre - al convegno “Educazione e mInori emarginati, teorie e prassi a confronto” Roma 7 giugno 2002)

Emarginazioni primarie

Primario è ciò di cui l’uomo non può non partecipare.
Quali ingiustizie impugnare?
Rivendicare i diritti sociopolitici è più facile. Meno risaputo è ciò che più appartiene all’umano. Le ingiustizie meno appariscenti ma più profonde.
Per sentire questo occorre avere un senso alto dell’umano e della sua dignità fondato sull’intensità dell’essere. Si prova vergogna per l’umano che crea certe emarginazioni.

L’emarginazione è un processo che ci coinvolge: insieme allontana l’altro e preclude a noi stessi zone della coscienza e dell’essere: l’emarginazione dell’altro avviene al costo di una amputazione del sé che riguarda il senso della convivenza e la significatività delle azioni. La lotta all’esclusione è quindi innanzi tutto riappropriazione di parti amputate. Non c’è altruismo. Ama l’altro come te stesso: la parte più difficile non è la seconda come si crede, ma è l’amare se stessi, non farsi male, non lasciare dei pezzi per strada.

Aristotele vede come vertice dell’etica l’amicizia

Il ‘contratto formativo’ con i ragazzi di Chance ha del miracoloso: ragazzi che non andavano a scuola cominciano a frequentare tutti i giorni, fin dal primo giorno e non smettono più. Quando mi chiedono una spiegazione rispondo che i ragazzi hanno capito che uno sguardo amico si è posato su loro e questo basta a farli alzare e camminare. Abbiamo elaborato complessi e minuziosi rituali per far sentire questo sguardo amico, per riuscire ad entrare in contatto con l’essere che sta oltre la barriera dell’aggressività e della negazione, perché sappiamo che è in questo primo contatto che i ragazzi ci misurano e decidono se esistiamo o meno. (continua)

Conoscenze che impattano con l’essere

Ora si dice life skills, competenze per la vita. Qualcuno si è accorto che una quantità enorme di tecniche non dà automaticamente la conoscenza. Il curricolo disciplinare non ha niente a che vedere con un percorso di conoscenza che è quasi un viaggio di iniziazione. I ragazzi dispersi non sono inquadrabili come una categoria sociale. Hanno in comune una biografia che li ha messi faccia a faccia con problemi di vita e di morte, nel modo meno gentile, nel modo meno filosofico. Tuttavia hanno una sensibilità estrema all’essere. Questo significa che non importa quello che sai, non importa quanto tu possa essere utile. Non importa insegnare bene quello che sai, importa chi sei. E se il ragazzo dice ‘io a quello lo schifo’ significa che il tuo essere gli ripugna, che sente che non può stabilire un contatto.

 L’ambizione sconfinata di chi contrasta l’emarginazione è di non restare chiuso nel ghetto, di dire e dimostrare che una scuola diversa che tenga conto dell’essere è possibile.
L’idea di un'ingordigia senile che impedisce ai giovani di nutrirsi è probabilmente priva di fondamento, ma è metaforicamente molto forte. Vecchi troppo saggi, persone troppo capaci o troppo piene d’amore possono ingombrare il campo ai giovani. Bisogna imparare l’arte difficilissima di farsi da parte di lasciare campo a chi deve crescere. I buoni maestri come i buoni padri sono capaci di questo: sono capaci di gioire attraverso i successi dei figli e degli allievi. Lasciate che i bambini mi amino.

Essere capaci di esprimere sé. Siamo un unico e dobbiamo esprimerci

L’unicità rappresenta la massima espressione della relazionalità. Si è unici per qualcuno, per quelli che ci hanno curato ed amato; ed è unico per noi chi abbiamo curato ed amato. Il sentimento dell’unicità, che è anche amore e cura di sé stessi, è indicibile, cioè si può esprimere attraverso l’arte: poesia, drammatizzazione, pittura, musica, danza…
L’espressione dell’unicità si realizza solo attraverso l’arte. La ragione analitica, le competenze che rimandano ad essa non consentono l’espressione integrale di sé, ossia dell’integrità del sé. L’espressione creativa ed artistica costituisce un diritto umano fondamentale, il modo di manifestare l’umano senza del quale l’umano viene mutilato. La capacità di leggere l’arte dei ragazzi, di stimolare ed accettare la loro espressività è una delle sfide che deve accettare chi voglia cimentarsi con la lotta all’emarginazione. Nei progetti di lotta alla marginalità la poesia, le arti plastiche e visive, la musica e la danza hanno un ruolo di primo piano.

Come illustri pensatori hanno notato: l’educazione per essere tale deve muoversi tra l’arte che esprime in forma unica, irripetibile e sempre diversa l’immutabilità dell’essere, i temi eterni dell’esistenza umana e la scienza che invece riduce l’infinita varietà del reale in un numero limitato di forme e concetti.
Così l’arte non è una disciplina, ma l’altra metà del cielo, il modo in cui gli umani entrano in contatto senza parlarsi. Da un incontro ravvicinato di questo tipo nasce la relazione e la possibilità di dipanare lentamente e con pazienza il filo della parola e dei discorsi. La pazienza, virtù fondamentale del docente di strada non è sopportazione o cedimento, ma è solidità di relazione che attende di essere spiegata, rivelandosi compiutamente. (continua)

Le emarginazioni primarie creano uno stato di passività che origina altre emarginazioni.

Nelle nostre analisi della dispersione scolastica diciamo sempre ‘esclusione ed autoesclusione’ perché spesso il singolo insegnante o il consiglio di classe si fa solo notaio di un processo di esclusione deciso da altri, che nasce dal soggetto e dal suo ambiente. Noi sappiamo che in realtà l’esclusione scolastica è solo un anello di un processo complessivo di ritiro da una relazione positiva con il mondo. (continua)

L’apprendere presuppone una posizione attiva che a sua volta posa sulla sicurezza delle relazioni, lo sguardo sul mondo si poggia restando protetti da un riparo sicuro. Così il recupero comincia dalla relazione, passa per il sociale e giunge infine al cognitivo. I maestri di strada si sono specializzati nel recuperare una posizione attiva verso l’apprendere, verso se stessi, come premessa per il lavoro didattico. L’espressione empowerment riassume l’insieme delle condizioni che consentono al soggetto di riprendere in mano il proprio destino.

L’emarginazione dell’umano è una diminuzione intrinseca. È mortalmente pesante ed impaluda la convivenza impedendo le qualità della convivenza.
Chi vive a contatto con il crimine deve ricordarsi di questo più di ogni altro. Ama il tuo nemico significa riconoscere nell’altro l’uomo anche quando ti aggredisce, anche quando senti di doverti difendere, significa comunicare oltre la barriera dell’aggressività.
Il giudice Falcone è un esempio di tale attitudine poiché riusciva a parlare con gli uomini della mafia e a rispettare la loro umanità senza cedere al crimine.

La vera grande sfida all’educativo è l’emarginazione prima. Occorre rimuovere ogni giorno la propria marginalità primaria. Se non si fa questo siamo combattenti astenici e senza forze, più soggetti alle mode.
Questa emarginazione prima proviene dalla mancata comunicazione dell’umano. L’umano va comunicato in situazione. Altrimenti non si dà; la comunicazione dell’umano avviene sempre da persona a persona, in un contesto sinergico in cui si mettono in comune le energie dei comunicanti, da animo ad animo.

La comunicazione cominciata con la persuasività sofistica e il dialogo socratico, il dialogo di vita;

Il dialogo di vita. Come ha insegnato Socrate è possibile solo se ti metti in gioco. Nel dialogo di vita non si può disgiungere la competenza dalla cultura, ciò che so e dico da ciò che faccio. La verità di ciò che dico è la vita. Socrate non poteva sottrarsi alle leggi quando tutto il suo dire e tutta la sua vita erano la proposizione della legge. Mille volte al giorno nel nostro lavoro non possiamo sottrarci alle leggi, alle regole della cultura che noi stessi proponiamo. Dialogo è anche mediazione e negoziazione di significati e di comportamenti. Solo negoziando riconosciamo all’altro pari dignità. Il cardine metodologico di una didattica umana è costituito da questa triade: dialogo, mediazione, negoziazione.

Il motivo della comunicazione

Il consenso, la costruzione logica, la verità del reale? Perché comunicare, quale interesse ci muove?
Quali sofferte realtà, quali fonti di conoscenze?
Comunicazione centrata sul sapere
Comunicazione centrata sulle energie umane

Comunicazione umana o interpersonale portando il peso di essere persona

Nel nostro dibattito interno questo punto lo abbiamo chiamato: assioma della significanza. Niente può essere insegnato se non è produttivo di significato. Ciò che è interessante è che nulla produce significato se non è significativo per me. Molti vecchi insegnanti, non sapendo nulla di pedagogia, essendo personalmente poco comunicativi stabilivano un dialogo umano attraverso la passione per la disciplina, la significanza che aveva per loro e che era di per sé comunicativa.

Comunicazione umana o interpersonale portando il peso di essere persona

Ma la comunicazione non può essere mossa solo dal docente. È necessario che ci sia un movimento comune. Noi lavoriamo molto per la condivisione e la restituzione, ossia per riconsegnare ai nostri allievi ciò che loro danno a noi. Questo significa costruire comunità, comunione di interessi, sentimenti di appartenenza. Il punto di svolta nella relazione è la reciprocità dell’appartenenza, è il momento in cui i ragazzi sentono che qualsiasi cosa accada ci appartengono.

I docenti che accettano di misurarsi con queste cose sono a loro volta coinvolti e travolti. Sulla base di questa constatazione nel progetto Chance è prevista una intensa ‘manutenzione’ della risorsa umana, ossia sedute di riflessione realizzate insieme a psicologi in grado di affrontare i possenti ‘campi di forze’ messi in moto dal lavoro con i ragazzi. Ogni progetto o lavoro che affronti realtà estreme e difficili dovrebbe dotarsi di simili stazioni di manutenzione, diversamente le energie elementari lavorano nell’ombra fino a far esplodere o l’operatore, o il progetto o entrambi.

La storia delle comunità è costellata di esperienze che non sono sopravvissute al fondatore o che si sono trasformate in prassi pedagogiche inefficaci perché, caduta la tensione e l’impegno degli inizi, non c’è stata una metodologia atta a tenere vive le energie vitali. In quei rari casi in cui le comunità hanno saputo conservare nei decenni lo spirito originario, troviamo una ‘regola’ in grado di 'curare' le persone che ne fanno parte. Noi abbiamo la pretesa di elaborare un modello in grado di preservare l’istitutzione da questa deriva. (continua)

C’è un risvolto messo in evidenza da Socrate, il dovere di questa comunicazione è risanante per il comunicante. Non si smette mai di offrirla e mai di riceverla.

"Daymon moi fainetai", uno spirito mi appare, (bisognerebbe dire un demone, ma ormai la parola è connotata negativamente) e mi fa parlare. C’è un bisogno interiore, una pulsione dell’essere che spinge a comunicare. La comunicazione non nasce da un fine altruistico o utilitario, ma da un bisogno personale, perciò è risanante, fa bene innanzi tutto a colui che comunica.
È lo schema che regola l’allattamento nei mammiferi: la madre porge la mammella al figlio innanzi tutto per soddisfare un suo bisogno, per liberarsi della sua pienezza: il figlio è strumento della propria liberazione, non è destinatario di un sacrificio di sé. È la cultura che rielaborando questo tema crea il concetto di altruismo che si estende a tutte quelle situazioni in cui si fa dono di sé a beneficio di altri. Ma se guadiamo bene ci accorgiamo che sempre è un motivo interno che muove verso l’altro. Persone vuote non sono capaci di altruismo. È per questo che in un progetto di recupero occorre innanzi tutto ‘nutrire’ gli operatori, arricchire il loro patrimonio di conoscenze, il loro bisogno.

Il vero, il bello, il bene:
le basi dell’educazione di tutti gli esseri umani

Una conversazione con Howard Gardner
Introduzione di John Brockman

Gardner: Vorrei che le persone che hanno ricevuto un’istruzione potessero capire il mondo in modo diverso da come l’avrebbero capito se non l’avessero ricevuta. Quando parlo del mondo mi riferisco al mondo fisico, biologico, sociale, il loro mondo personale e insieme il più vasto mondo sociale e culturale. Ci sono domande a cui ogni essere umano è interessato fin dalla tenera età. Sono domande che i bambini fanno continuamente: “Chi sono, da dove vengo, di che cosa è fatto questo, che cosa mi capiterà, perché la gente fa la guerra, perché c’è l’odio? Esiste un potere superiore?” Domande di questo tipo, anche se i bambini di solito non le fanno con queste parole, sono presenti nei loro giochi, nelle loro storie, nelle favole che amano farsi raccontare. (continua)

Queste sono anche le domande che storicamente si sono poste la religione, la filosofia e la scienza. Ora se è importante per le persone porsi queste domande e ricorrere alla propria personale esperienza per darvi risposta, sarebbe però folle pensare che non si debba fare tesoro delle risposte che nel corso dei secoli altri hanno tentato di dare a quelle stesse domande. E le discipline rappresentano, secondo me, il più grande sforzo di fornire queste risposte. La storia ci dice da dove veniamo. La biologia ci spiega cosa significa essere vivi. La fisica ci parla del mondo degli oggetti, vivi o inerti. (continua)

È importante enfatizzare il ruolo delle discipline nell’istruzione scolastica. Alcuni pensano che le discipline siano irrilevanti, altri pensano che il lavoro interessante sia solo quello interdisciplinare, e che si possa tranquillamente saltare a quello. Io respingo queste impostazioni. Le discipline sono ciò che ci separa dai barbari; e non credo che si possa fare lavoro interdisciplinare senza avere studiato le discipline. Quelli che difendono le discipline, però, spesso cadono nell’estremo opposto. C’è una battuta che dice: nella scuola elementare amiamo i bambini, nella secondaria amiamo le discipline, all’università amiamo noi stessi. (continua)

Non credo che le discipline debbano essere amate per loro stesse; dovrebbero essere viste come il migliore strumento per dare risposte a quelle domande alle quali sono interessati gli esseri umani. Per rispondere quindi alla sua domanda, istruire secondo me significa aiutare le persone a capire quali sono state le risposte migliori che le culture e le società hanno date alle domande di fondo, quelle che chiamerei domande essenziali. Dopo, alla luce di tutte le elaborazioni precedenti, potremo dare le nostre risposte, potremo fare le nostre sintesi. (continua)

È improvvisamente diventato irrilevante che la gente memorizzi molte cose. Perché questo lo possono fare i computer e altri strumenti. Quando dico che bisogna capire la disciplina per poter affrontare le domande fondamentali, voglio dire che abbiamo bisogno di allenare i modi di pensare, così quando ci si trova di fronte a cose nuove, si deve poter dire: “Bene, so come affrontarle grazie ad alcuni modi di pensare che ho appreso; o se non sono in grado di farlo immediatamente ho almeno alcuni riferimenti che mi aiutano a capire come devo muovermi”. (continua)

L’abitudine di studiare le discipline dall’a alla zeta, e imparare tutti i fatti e tutti i concetti, è propria delle scuole di tutto il mondo. Ma non è mai stata una buona idea, ed ora è diventata assolutamente inconsistente. Personalmente butterei via il 95% del curricolo; cercherei di capire quali sono le domande e gli argomenti davvero importanti, darei tantissimo tempo per imparare come ragionano su quegli argomenti le menti che hanno acquisito quello specifico abito disciplinare e poi concederei molto tempo per praticarle per proprio conto. (continua)

Sono quelle che io chiamo punti di accesso agli argomenti cruciali che permettono di pensare in termini scientifici, storici o estetici. Quello che io farei come insegnante sarebbe di spendere settimane, mesi, anche anni, per andare a fondo in queste cose così che le persone riescano a sviluppare quegli abiti mentali che permettono di ragionare sugli argomenti in modo scientifico, storico, o estetico. (continua)

La teoria delle intelligenze multiple può essere utile almeno da tre punti di vista.
Prima di tutto per decidere quelli che ho definito i punti di accesso.
In secondo luogo per fornire efficaci analogie o metafore di ciò che si vuole far capire. Non sappiamo se ci sono sette analogie, come le sette intelligenze da me definite per qualsiasi cosa che si vuole spiegare, ma c’è sempre più di un’analogia o di una metafora.
In terzo luogo per identificare ciò che chiamo i diversi linguaggi del modello che servono alla comprensione di un concetto […] la comprensione di un argomento può considerarsi solida se sappiamo rappresentarlo in diversi modi e se siamo in grado di passare velocemente da una rappresentazione all’altra. (continua)

È una questione molto importante quella di spendere molto tempo su una cosa, piuttosto che sorvolare superficialmente su tante . La gente dice: devi leggere 500 libri prima di uscire dalla scuola superiore  – io dico che sono idiozie! Si deve leggere un numero limitato di buoni libri molto attentamente, e imparare a pensare su quei libri. […] Io dico che noi sappiamo come si insegna a leggere; ma il problema vero è che i bambini non leggono. L’alfabetizzazione deve essere un mezzo per giungere ai saperi. Le discipline sono quelle che ci aiutano a trovare le prime ragionevoli risposte a tutte le domande essenziali. Non possiamo farlo da soli. Ma ci sono solo tre o quattro discipline fondamentali di cui dovremmo curarci prima dell’università. (continua)

La prima riguarda la capacità di pensare scientificamente.
 La seconda riguarda la storia del proprio paese, e anche un po’ del resto del mondo. Ma di nuovo, la gente non sa pensare storicamente, pensa che le guerre puniche siano avvenute più o meno al tempo dell’amministrazione Truman. Non capisce i modi in cui siamo uguali o diversi rispetto ad altre culture, altre ere storiche, tende a pensare che il passato sia tutto diverso e tutto brutto, pensa che la storia sia progresso – la gente è piena di idee sbagliate. (continua)

La terza riguarda la capacità di capire le opere d’arte, perché sono i tesori della cultura.
La quarta riguarda la matematica, perché è la lingua della scienza, e non si procede senza conoscerla. (continua)

 Quello di cui abbiamo bisogno di discutere è che cosa devono sapere i cittadini delle nostre comunità. I nostri concittadini quando prendono in mano un giornale che ha un articolo sul colesterolo, o su qualche nuovo tipo di contraccettivo, devono essere in grado di dire: “è credibile? Devo cambiare il mio atteggiamento sulla base di quanto sta scritto qui?” E ugualmente devono essere in grado di decidere come votare su qualsiasi cosa, sia che si tratti di scegliere se abbattere o no una pianta o di destinare o no dei fondi per un nuovo centro artistico. Devono sapere capire abbastanza di analogiee diversità rispetto ai precedenti periodi storici, così da essere in grado di esprimere propri giudizi. (continua)

Ci vorranno 50 anni per vedere se le idee che ho sviluppato avranno avuto un impatto sull’istruzione. Una delle idee su cui mi sono speso moltissimo è quella dell’istruzione centrata sull’individuo. Finora tutti hanno appreso le stesse cose, che sono state insegnate nello stesso modo, verificate e valutate con gli stessi sistemi e criteri. E tutto questo è sempre stato considerato assolutamente giusto ed equo. La mia tesi, che contraddice qualsiasi tesi precedente, è che si tratta del metodo più ingiusto che esista al mondo, perché privilegia un solo tipo di intelligenza, quella che io chiamo logico-linguistica. (continua)

Chi ha un’intelligenza di questo tipo a scuola va bene, chi vi si discosta e ha un altro tipo di intelligenza è automaticamente un somaro . Con l’avvento delle nuove tecnologie, l’istruzione centrata sull’individuo sarà solo una questione di tempo. Fra 50 anni la gente riderà dell’idea finora dominante, secondo cui a tutti deve essere insegnata la stessa cosa nello stesso modo.
Già adesso per qualsiasi argomento degno di essere appreso ci sono dozzine di modi per apprenderlo, accessibili a tutti attraverso la tecnologia.

 

 
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