Accogliere, integrare|
         

 

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Madonna "Litta" - Copia eseguita da Elvis,
peruano di anni 15

Leonardo da Vinci - Madonna “Litta”

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La posizione del bambino, intorno agli otto mesi, è di avere sicurezza del nutrimento, protezione e sostegno: da questa posizione osserva il mondo e si concede di far interferire bisogni immateriali con quello materiale di nutrirsi.

Qualche genitore legge questo atteggiamento come ‘distrazione’ o ‘svogliatezza’ e magari si rivolge al pediatra: comincia da qui una lunga serie di misconoscimenti dei bisogni immateriali dei bambini e dei giovani in genere.

Paure connesse all’apprendimento

Carla Melazzini (Progetto Chance) in una lezione tenuta all’Università di Milano Bicocca :

Bruno Bettelehim nell’articolo “La violenza: una modalità di comportamento trascurata”

(Ristampato con modifiche e aggiunte dagli “Annals of the American Academy of Political and Social Science”, 364, 1966, pp. 50-59.) racconta di come nella Orthogenic School avesse diviso le parole in ‘simpatiche’ e ‘rabbiose’ e che queste ultime venivano apprese molto più rapidamente, e conclude:

Un concetto del tutto analogo viene espresso dagli psicologi della scuola di Tavistock nel libro “L’esperienza emotiva nei processi di insegnamento e di apprendimento”, (I. Salzberger-Wittenberg, G. Henry-Polacco, E. Osborne (1987), , trad. it. Napoli, Liguori):

 

 

Quattro ambienti
per la crescita della giovane persona
trecuori
La cura restituisce a ciascuno calore e sicurezza in ogni condizione.
 
L'ambiente della formazione

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Il maestro con l a sua presenza e con i suoi suggerimenti costituisce uno spazio di apprendimento protetto e vicino al soggetto che apprende.

 

L'ambiente dell'istruzione

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L’ambiente dell’istruzione generalmente è l’ambiente caratterizzato dalla trasmissione di un sapere concettuale, codificato nelle discipline scientifiche e scolastiche.t
 

Educarsi

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L’ambiente dell’educazione è caratterizzato dalla relazione immediata con le situazioni di vita. L’assenza di mediazioni significa anche l’assenza di protezioni, l’esposizione al rischio.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il riesame della rete educativa
 
 
 
 
 
 
 
Laboratori che accrescono l'autostima
 

 

 

 



LA PARTECIPAZIONE, L’INTEGRAZIONE,L’ACCOGLIENZA

 

La società complessa ha una crescente difficoltà ad accogliere le nuove generazioni nel patto di cittadinanza che regola la convivenza civile.

L’educazione intesa nel suo significato originario di processo di cambiamento delle condizioni di vita esistenti, è il risultato di un processo sociale complesso che attraverso lo sviluppo di relazioni e vincoli con le nuove generazioni produce un nuovo assetto delle configurazioni sociali. Ogni nuovo ingresso in società non rappresenta una inclusione ma una fusione che da luogo ad una nuova configurazione: La buona accoglienza dei giovani è quindi un indicatore ecologico della salute del sistema e della sua capacità di crescita, il disagio dei giovani è il disagio di una civiltà che non sta bene con se stessa.

Non possiamo affrontare la difficoltà dei giovani se non riusciamo ad affrontare la difficoltà della società, e di ciascuno di noi con i giovani.

E’ appena il caso di nominare questa questione, tanto complessa quanto difficile da affrontare per profonde resistenze di ciascuno di noi, perché da questa osservazione discende la necessità di non considerare un dentro e fuori scuola, ma di considerare unitariamente il processo della educazione e della formazione come risultante di interazione di diversi ambienti e configurazioni di apprendimento.

Tuttavia c’è una considerazione necessaria prima di qualsiasi approccio: l’apprendimento è per sua natura denso di implicazioni emotive.

 

La posizione dell’apprendere

Per affrontare questo tema in poche parole richiamo la “posizione dell’appren-dimento”, ossia quella disposizione dell’animo che ci apre ad introiettare il mondo esterno attraverso rappresentazioni da noi stessi elaborate. Questa disponibilità non è affatto scontata, e il più delle volte è collegata alla paura o alle frustrazioni: apprendiamo perché il mondo ci pone delle sfide. Per poter accogliere la sfida dell’apprendimento occorre sentirsi particolarmente sicuri.

Il dipinto di Leonardo, Madonna di Litta, illustra questa posizione per il bambino piccolo. Idealmente e metaforicamente nelle nostre aule dovremmo riprodurre la condizione mentale qui illustrata.

Possiamo vedere, ancora attraverso delle immagini, come la ricerca di un ‘riparo sicuro’ affettivamente forte sia, anche per i più grandi la posizione da cui guardare, soprattutto a ciò che fa paura.

 

 

“Uno dei principali apprendimenti che abbiamo sviluppato è la capacità di osservare, comprendere ed entrare in contatto con i molteplici strati di paure presenti nei ragazzi, parecchie delle quali sono il portato diretto di storie di vita molto dure nonché del sistema di terrorismo criminale che governa il loro spazio sociale; ma ve ne sono molte altre, più piccole per così dire, o più normali, che derivano dall’età, dagli insuccessi a scuola, dai copioni sociali e culturali ai quali il ragazzo affida le sue sicurezze: paura di prendere i mezzi pubblici; di uscire dal proprio rione; di essere colpiti da sguardi svalutanti e malevoli; di non capire chi parla italiano; di sentirsi uno straniero se si parla italiano; di un foglio bianco da riempire; di fare la figura dello scemo con i compagni perché non sai leggere bene; di fare la figura dello scemo perché sai leggere bene; e poi l’angoscia universale legata al non sapere…. Se lo sguardo dell’adulto è attento ed empatico- e soprattutto se è uno sguardo multiplo, cioè di un gruppo coeso di adulti- è possibile individuare ogni tipologia di paura e scoprire qualche buona pratica in grado di neutralizzarla.”

 

“Un altro confronto tra apprendimento automotivato e apprendimento “normale”, imposto dall’adulto: i nostri bambini non riuscivano, a differenza di Rangi, a imparare dieci parole in quattro minuti, però ci fu un ragazzo che, mentre era riuscito a stento a imparare quattro parole “simpatiche” in una giornata, nello stesso giorno ne aveva imparate dieci “rabbiose”, da lui stesso scelte, tra le quali anche parole difficili come strega, temporale e combattimento. Questo dimostra che il desiderio di esprimere e di padroneggiare le cose che per noi contano è una potente motivazione all’apprendimento, che ci consente di imparare a leggere e a capire le parole e con esse il fenomeno che designano, anche se spiacevole. Capire i problemi più grossi e più pressanti, nostri e altrui, comporta anche di capire le nostre emozioni, compresa la violenza: in che cosa consiste esattamente, quali ne sono le cause, quali le (deplorabili) conseguenze, come queste possano essere evitate. La negazione e la repressione non portano a nulla di buono; la capacità di padroneggiarle attraverso la ragione rimane il migliore strumento che possiamo fornire ai nostri figli per far fronte alle loro emozioni problematiche e distruttive, di cui la violenza è quella che crea i problemi più gravi per loro stessi e per la società. Un fisico britannico ( L. L. WHITE, The Next Devetopment in Man, New American Library, New York 1930. ), riflettendo su quale dovrà essere la prossima tappa evolutiva dell’uomo, è giunto alla conclusione che solo quando le nostre azioni falliscono lo scopo, facciamo ricorso al pensiero per trovare la soluzione di un problema. “II pensiero è figlio del fallimento. Solo quando l’azione non riesce a soddisfare il bisogno umano c’è spazio per il pensiero. Dedicare attenzione a un problema equivale a confessare una incapacità di adattamento su cui è giocoforza riflettere. E quanto più grande è il fallimento, tanto più penetrante deve essere il pensiero”. “

“L’apprendimento ha origine da una situazione in cui non conosciamo ancora, da una situazione di incertezza, da un non sapere, da un non essere ancora capaci di ottenere ciò cui si aspira. Tale situazione è fonte di ansia: paura della confusione, caos di fronte a esperienze non ancora classificate, impotenza di fronte al non sapere, timore di essere inadeguati, di essere considerati stupidi al confronto con gli altri. Si tratta di esperienze dolorose cui si può reagire in vario modo: evitandole, affrontandole con rabbia e onnipotenza, o usando l’esperienza, il fallimento per apprendere, in quanto mette il soggetto in situazione di crisi, di fatica, di prova di sé”. (sintesi da Anna Bondiol- Metodologia della ricerca educativa per il sostegno)

Per comodità espositiva e per cercare di individuare gli elementi qualitativi di una rete educativa distinguiamo quattro modi in cui gli adulti si prendono cura delle giovani generazioni. Ognuno di questi modi configura un ambiente di apprendimento con caratteristiche anche radicalmente diverse. Uno dei problemi dei giovani è la difficoltà ad attraversare le frontiere tra questi diversi modi; uno dei problemi del sistema di istruzione e formazione è la difficoltà a integrare i diversi modi e quindi ricondurre l’azione di istituzioni diverse alla interezza del soggetto che apprende, all’integrità della persona che cresce.

La cura

Curare appartiene alla dimensione emotiva dell’esistenza è ciò che fa sentire sicuri e protetti, considerati ed amati. La cura crea appartenenza, identità, legami personali, legami cooperativi, obbligazioni, reciprocità. La cura familiare è parte di una cura sociale più generale, di una capacità del corpo sociale di essere protettivo e rassicurante per ciascun gruppo. Un gruppo di cura che non si senta sufficientemente protetto genera a sua volta una relazione di cura inadeguata. Il benessere delle relazioni sociali di cura è quindi il nostro primo punto di attenzione.

La cura è autosufficiente: la cura genera cura, la cura la si apprende attraverso la cura. Gran parte della attività di curasi realizza a monte della parola e senza la parola, è la fonte delle ritualità del quotidiano e dei gesti significativi; l’ambiente della cura viene configurato come luogo accogliente raccolto, protetto, gratuito, non giudicante; l’ambiente della cura è presidiato, istituito dal parente, da colui che esercita la cura parentale. I professionisti che interpretano ruoli e funzioni relativi alla cura, sono gli educatori-tutor. Gli educatori mediatori con le famiglie, gli educatori incaricati di sostenere le cure parentali da parte dei titolari delle stesse.

La cura attraverso l’accoglienza permea di sé ogni altro ambiente. La dimensione di accoglienza comporta in ogni circostanza attenzione agli stati emotivi del soggetto, cura delle relazioni sociali affinché si verifichino momento per momento le condizioni emotive per poter apprendere. Lo spazio della parola, che è lo spazio perché il pensiero possa muoversi ed articolarsi piuttosto che lasciare che il soggetto sia agito dalle proprie stesse mozioni, si costituisce attraverso la meticolosa attenzione alla persona di chi apprende e ai suoi stati emozionali.

L'ambiente della formazione

Formare lo intendiamo nel significato elementare del mettere in forma, dell’incanalare le energie personali e le energie di legame verso la forma socialmente determinata che hanno assunto le relazioni sociali, la divisione sociale del lavoro, gli istituti fondanti della convivenza civile. Parliamo quindi di un apprendistato della società e del lavoro sociale e produttivo che si realizza nei contesti e si sviluppa innanzi tutto per frequentazione e poi per interventi consapevoli di adulti esperti che affiancano il giovane per incoraggiarlo e correggerlo. La formazione da questo punto di vista non è altro che sviluppo di una tradizione ossia del passare da una generazione all’altra i saperi pratici che consentono lo sviluppo di una società. Tramandare il fare sociale e produttivo non può essere ridotto alla dimensione di produzione di reddito, tramandare il saper fare attiene alla crescita e alla funzione di preparazione all’ingresso nei ruoli adulti. Questo è il secondo punto di attenzione, dobbiamo capire quanto questa funzione sia in crisi e rappresenti una deprivazione per il processo di crescita.

L’ambiente della formazione è caratterizzato dall’interazione sociale con le culture professionali preesistenti e con le relazioni sociali e produttive che operano qui ed ora. In un ambiente formativo l’esistenza di prassi consolidate, socialmente riconosciute ed accettate svolge un ruolo importante di rassicurazione e di certezza nei comportamenti da seguire. L’ambiente formativo è istituito dai maestri d’arte, dai mastri che sanno di più in quel campo.Il maestro con l a sua presenza e con i suoi suggerimenti costituisce uno spazio di apprendimento protetto e vicino al soggetto che apprende, Questo rende possibile lo sviluppo prossimale, un avanzamento sul terreno della conoscenza e dell’esperienza sotto l’ala protettiva di colui che è esperto e che garantisce rispetto a ipotetici pericoli.

L'ambiente dell'istruzione

er istruire intendiamo lo sviluppo di una sapere riflessivo e decontestualizzato. Il frutto più prezioso dello sviluppo sociale e della comunicazione interumana è lo sviluppo di un pensiero riflessivo in grado di distillare dall’esperienza forme astratte, universali, e di illimitata riproducibilità ed applicabilità pratica. La finalità dell’istruire è il sapere riflessivo, lo sviluppo di una capacità nuova della mente in relazione a se stessa. L’istruire è necessariamente una attività “meta”, una attività di secondo livello in grado di mettere in lavorazione i reperti dell’esperienza e della formazione per costruire mappe mentali in grado di orizzontarci nel mondo reale. Raccolta dei dati, accumulo di esperienze e riflessività sono strettamente connessi: per lo sviluppo del pensiero riflessivo per molto tempo la scuola ha proposto anche un repertorio di informazioni, nozioni, testi canonici. Spesso sapere riflessivo e sapere nozionistico si sono confusi tra loro. In una società complessa ricca di comunicazioni forse bisogna lavorare molto di più alla riflessività operando sui materiali offerti spontaneamente dal vivere in simile realtà. La crisi della capacità riflessiva quale finalità dell’istruzione è un altro punto di attenzione.

L’ambiente dell’istruzione generalmente è l’ambiente caratterizzato dalla trasmissione di un sapere concettuale, codificato nelle discipline scientifiche e scolastiche. Disciplina è una sorta di obbedienza ai principi e al punto di vista di un sapere così come cristallizzato nella storia e rappresentato da un professore, da qualcuno che professa fede in quella disciplina. In questi termini forse la trasmissione di una disciplina non si realizza neppure più all’università. Tuttavia il modello organizzativo che c’è dietro la classica lezione scolastica è questo e numerosi rimaneggiamenti non hanno ancora modificato questa impostazione. Si trovano in questo campo le maggiori innovazioni conseguenti all’adozione di un punto di vista integrato. La lezione in fatti non può essere più tale, sono necessarie mediazione e percorsi che tengano conto di ciò che ciascuno ha informalmente appreso per il solo fatto di vivere in una società ad alta densità comunicativa e soprattutto deve tener conto della realtà antropologica degli allievi che vivono tipi di relazioni e modalità di convivenza diverse rispetto al ceto sociale di cui i saperi disciplinari sono espressione. Da più parti viene una sollecitazione a riutilizzare frammenti di esperienza e di cultura secondo il punto di vista del giovane che cresce e non secondo il punto di vista della disciplina. La città metafora della complessità del sapere e della società non viene letta secondo un canone condiviso, ma è una raccolta di frammenti in cui ci si perde e solo dopo essersi persi si ritrova un filo. In questa logica “Vasco Rossi” prepara Rimbaud (ne ha parlato anni fa Guido Armellini), Bob Dilan anticipa Thomas Dilan (nel film Pensieri pericolosi), l’energia di “Ulk il terribile” prepara il secondo principio della termodinamica (mia esperienza didattica)

 

Educarsi

 

L’educarsi è proposto nella forma riflessiva a sottolineare che il soggetto dell’educazione è l’educando, anzi il processo educativo non è altro che l’assumere un ruolo attivo verso se stessi e verso l’apprendimento. Educarsi significa ricombinare sotto la propria guida ciò che a ciascuno deriva dalla cura, dalla formazione, dall’istruzione. Ciascuno ha bisogno della sicurezza emotiva derivante dalle relazioni primarie, di un patrimonio di pratiche desunte dall’esperienza formativa, di una capacità di riflessione e del pieno possesso delle facoltà mentali per formulare un proprio progetto di vita, organizzare il proprio ingresso nei ruoli adulti, per sviluppare ancora apprendimenti e cambiamenti nella propria vita. Quali sono i luoghi dell’educazione, gli spazi della crescita e della sperimentazione del sé è sempre più difficile da rintracciare. Nell’esperienza storica ed antropologica, la strada e la piazza, le strutture urbanistiche, gli spazi comunitari e condominiali hanno rappresentato fisicamente i luoghi ed i modi della mediazione, gli spazi dell’incontro e della sperimentazione di sé. Le strutture delle società erano leggibili attraverso le strutture urbane e l’organizzazione degli spazi; tra spazi della mente e luoghi della città c’erano corrispondenze esplicite e segrete. Esplorazione urbana, passaggi esotici, rivisitazioni archeologiche dell’antico, apprendistato lavorativo, facevano parte del percorso di attivazione dell’individuo. Ricostituire i luoghi dell’incontro e della mediazione, diventare capaci di leggere la complessità del villaggio reale e ancora più quella del villaggio virtuale e globale; ritrovare tempi e modi della messa alla prova è il punto di attenzione individuato.

L’ambiente dell’educazione è caratterizzato dalla relazione immediata con le situazioni di vita. L’assenza di mediazioni significa anche l’assenza di protezioni, l’esposizione al rischio. Nel passaggio all’età adulta, in forme diverse, in ogni società esiste una figura di accompagnamento che non coincide con i genitori ma che ha la fiducia dei genitori e un riconoscimento sociale. I primi contratti di apprendistato in Europa si rifanno anche a questo schema: il datore di lavoro deve comportarsi come un buon padre, a lui viene affidato anche un compito educativo. Nel momento in cui si decidono le condotte di vita i genitori e la giovane persona sono consapevoli del fatto che si decidono anche identità ed appartenenza, che bisogna allontanarsi dalla famiglia ma mantenere un legame. Anche in questo campo non si possono proporre condotte di vita, modelli di comportamento senza una complessa attività di mediazione e senza stare continuamente attenti al contratto che lega educatore, famiglia giovane persona. L’idea che si possano proporre “valori”, stili di vita, ‘copioni’ professionali, regole civili, senza fare i conti con la realtà vissuta dalle persone, come se si trattasse di una scelta solo razionale, è un’idea tanto rivoluzionaria quanto velleitaria.

L’educarsi rappresenta la meta di ogni altra azione, la capacità del soggetto di prendere in mano il proprio destino usando i propri mezzi e contando sulle proprie forze. La forma riflessiva intende sottolineare che la partecipazione è essenziale all’educazione. Partecipazione qui si intende soprattutto nella dimensione emozionale e relazionale e non nella dimensione politico-rappresentativa. Alla partecipazione si collega quindi la cura e l’accoglienza quali elementi di protezione e rassicurazione del soggetto che apprende, si collega la formazione intesa come padronanza di tecniche; l’istruirsi inteso come possesso degli strumenti di pensiero. Se la partecipazione è essenziale sono necessari spazi e tempi in cui il giovane possa assumere il potere sulle proprie risorse ed impiegarle attivamente. L’educarsi non si realizza fuori dei contesti, non è una preparazione al futuro, ma l’attivarsi oggi. Nella pratica del progetto che realizziamo a Napoli, noi chiamiamo tutto questo “percorso di cittadinanza”: perché si tratta di attività che rendono il giovane cittadino attivo oggi e lo rendono protagonista dello sviluppo dei legami sociali e quindi della città.

Il problema che dobbiamo affrontare in un progetto integrato è il riesame della rete educativa che dovrebbe sostenere il giovane che cresce e il rinnovo delle pratiche educative connesse basandole sulla assunzione consapevole del compito. In questo modo una serie di compiti educativi restati impliciti, o devitalizzati sotto la spinta di rapidi cambiamenti dell’apparenza sociale, vengono proposti perché siano assunti esplicitamente da specifiche figure professionali e gestiti in appositi spazi e tempi.

Dunque abbiamo quattro modi diversi di sostenere la persona che cresce ed ambienti configurati in modo diverso, ma in tutti abbiamo messo in evidenza la necessità di mediazioni molteplici, la presenza di spinte contraddittorie, percorsi non lineari, percorsi non standard.: in tutti abbiamo messo in evidenza la diversità delle relazioni tra giovane persona e adulti: la cura personale, la relazione magistrale, la relazione professorale, la relazione educativa. La relazione tra fuori e dentro la scuola in realtà è il problema di far interagire diversi modi di apprendimento e diverse figure di riferimento ciascuno delle quali esprime un punto di vista tendenzialmente conflittuale con gli altri. Le diverse istituzioni in cui sono incardinate nella società di oggi le diverse figure professionali non fanno altro che riprodurre ed esaltare in modo inconsapevole e talora distruttivo una contraddizione ed una complessità che esistono a monte di qualsiasi istituzione. La regola dell’integrazione è innanzi tutto una regola per tenere unito l’intero piuttosto che frammentarlo e ricostituirlo a posteriori con innumerevoli livelli di coordinamento.

Tutti coloro che concorrono ad un progetto educativo dovrebbero sedere allo stesso tavolo di lavoro e progettare insieme il lavoro, in questo modo essi costituiscono una comunità educante ed una comunità di pratica. Comunità di pratica che attraverso una serie di costrutti pedagogici interagisce cooperativamente con gli allievi per sollecitarli a loro volta comportarsi come comunità ed interagire consapevolmente con il progetto educativo che viene proposto dalle figure adulte, cosicché si svolga per loro un apprendistato alla cooperazione e alla convivenza che assume il modello cooperativo e partecipato degli adulti come riferimento concreto.

In questo senso occorre proporre una educazione di comunità in cui si creano e si stabiliscono legami, obbligazioni, reciprocità, responsabilità. Senza una comunità, senza la condivisione di obblighi, l’attività educativa non ha fondamento in quanto le regole ed i modelli proposti non hanno sostanza. La regola generale a cui attenersi è che occorre rispettare le modalità comunicative proprie di ciascun ambiente di apprendimento: non si può fare educazione proponendo solo idee e valori, non si può fare istruzione proponendo solo esperienze pratiche senza alcuna concettualizzazione, non si può fare formazione leggendo un manuale tecnico, non si può curare parlando dell’importanza della famiglia: la cura si conosce attraverso la cura, il mestiere attraverso il mastro, i concetti attraverso la parola, l’educazione attraverso se stessi.

Ed in ognuno di questi ambiti esistono potenti emozioni che coinvolgono le giovani persone in crescita

ed insieme gli adulti che interagiscono con essi, perché sistematicamente l’irrequietezza e la crescita dei giovani mettono in discussione i saperi costituiti, le prassi consolidate, le configurazioni professionali di ciascuno. Esistono professioni basate sull’applicazione di un sapere ben codificato, professioni che sono specializzate nell’affrontare realtà continuamente mutevoli: i vigili del fuoco, la polizia, gli psicologi, i politici, i maestri, gli educatori ….. ciascuno a suo modo deve imparare il mestiere mentre lo fa, ed ha quindi necessità di una continua attività di riflessione professionale e di costruzione delle proprie regole professionali. Al tempo stesso occorre avere conferme e rassicurazioni che non risiedono nella geometrica perfezione della disciplina, ma nel faticoso lavoro di riassetto della comunità; nell’intricato lavoro di rielaborazione delle emozioni ostacolanti.

Occorre garantire momenti di confronto professionale che consentono agli operatori di riflettere sulle esperienze, ritemprare energie psichiche esauste dal confronto con una realtà complessa, mutevole, ricca di tensioni.

 

Laboratori che accrescono l’autostima

Molti interventi hanno evidenziato la presenza anche consapevole ed organizzata di accoglienza per i bisogni emotivi dei giovani, soprattutto l’esistenza istituzionale – e probabilmente efficacemente diffusa – nelle scuole elementari e nelle scuole medie presenti. E’ stata sottolineata la difficoltà organizzativa a trasportare queste pratiche in una organizzazione complessa come quella della scuola superiore. Nelle scuole medie presenti ci sono esempi funzionanti e confermati dai genitori presenti, di attività pratiche che accrescono il senso di autostima dei ragazzi in quanto li mettono in condizione di realizzare lavori propri

Una organizzazione così efficace viene però messa in crisi dalla presenza di stranieri e da giovani che non hanno ricevuto e non ricevono adeguato sostegno nelle famiglie di origine

Un esempio di diversa relazione tra teoria e prassi

E’ stato proposto un esempio di percorso integrato in cui un docente, nel ruolo di tutor ha stabilito una diversa relazione con i giovani ed è riuscita anche a proporre un percorso formativo che dalle esperienze pratiche producesse un sapere concettuale. E’ andato tutto bene finchè i giovani non hanno appreso che si trattava di una docente di matematica ed allora hanno incominciato a guardarla con sospetto. L’esempio è significativo della diversità della relazione docente rispetto a quella tutoriale: nel primo caso, anche se il singolo non ha un tale atteggiamento, i giovani percepiscono una attitudine giudicante e valutativa che si scontra col desideri di liberarsi delle tutele degli adulti. Nel caso del tutor, anche perché la figura è nuova, i giovani vedono soprattutto il ruolo di aiuto e mediazione e hanno maggiore fiducia.

Un esperienza dell’educarsi

Un altro esempio che vale la pena approfondire (del resto c’è una pubblicazione in merito: Progetto Giulia: la diversità è una risorsa speciale per crescere insieme. I Circolo didattico di Quarrata) riguarda una scuola elementare in cui una bambina muta è stata ‘curata’ dall’intera classe guidata dalle maestre e nella quale sia i bambini che i loro genitori hanno potuto vedere come si realizza un progetto educativo, hanno avuto la possibilità di realizzare un ‘prodotto’ valido, vero e non solo una esercitazione scolastica

Il relatore cita un caso analogo in cui una classe delle superiori si è curata di un giovane resosi protagonista di un atto delinquenziale. In generale sia i bambini sia i giovani in età adolescenziale danno il meglio di sé quando piuttosto che essere destinatari di interventi, possono rendersi utili, sentire di essere apprezzzati. In un progetto educativo le azioni socialmente utili adeguatamente progettate e gestite devono avere un posto centrale.

E’ possibile accogliere le emozioni? E fare una didattica diversa nell’ambiente complesso delle scuole superiori?

I docenti delle superiori insistono sulle difficoltà organizzative nella scuola superiore e citano esempi in cui sono riusciti a introdurre elementi di accoglienza delle emozioni dei giovani con grande difficoltà

Sono citate le difficoltà ad operare una didattica laboratoriale in situazioni in cui docenti delle discipline mostrano esplicita ostilità verso i laboratori, oppure quando l’orario della disciplina, troppo frammentato rende difficile pensare ad attività partecipative.

Alcuni educatori impegnati con agenzie formative e nel centro socio-educativo, sottolineano l’importanza delle pratiche di rinforzo dell’autostima verso ragazzi che hanno vissuti fallimenti e come dalla pratica questi possano ricevere la spinta di fiducia che li porta a riconsiderare anche lo studio scolastico.

Anche chi è impegnato nei percorsi integrati ha sottolineato la discontinuità tra scuole elementari e medie in cui si pratica l’accoglienza verso i vissuti dei giovani e si sostiene la genitorialità e le scuole superiori in cui questo è meno praticato e più difficile o le situazioni in cui le famiglie non sono abbastanza presenti o in cui sono troppo protettive.. Tutti gli educatori lamentano particolarmente l’assenza di momenti istituzionali di condivisione.

Quando si parla di emozioni si finisce per pensare soprattutto ad eventi e preoccupazioni estranee all’ambiente scolastico e quindi a condizioni sociali di disagio. In verità occorre innanzi tutto aver presente che il processo di crescita ed il processo di conoscenza porta con sé ansie e paure: ansie più immediate riguardanti il sentirsi in grado o meno di affrontare un compito; ansie relative al proprio sviluppo identitario, ansie relative alle relazioni con i coetanei e gli adulti; ansie e preoccupazioni più generali riguardanti l’ingresso nei ruoli adulti. Questo tipo di ansie non riguarda una classe sociale, ma ogni giovane persona che cresce. Avere attenzione a queste ansie e paure quindi non significa dover affidare a situazioni speciali o eccezionali il compito della rassicurazione, ma utilizzare i mezzi della didattica stessa per aiutare i giovani ad avere maggiore padronanza del processo di crescita.

In questo ambito una particolare attenzione va dedicata ai momenti di passaggio e alla valutazione.

Le discontinuità e hanno un valore formativo se affrontate come tali, viceversa – e su questo c’è stato unanime consenso – voler smussare le difficoltà o eliminarle è diseducativo e rischia di far crescere giovani fragili di fronte alle difficoltà.

In particolare una delle difficoltà nel passaggio alla scuola superiore è il senso di inadeguatezza, la paura di non avere gli strumenti cognitivi per farcela. Questo è il segno di un processo valutativo che non coinvolge il ragazzo e la famiglia tale per cui persino i giudizi positivi possono essere reputati come ‘strumentali’ dettati da logiche non condivise. La valutazione sotto questo aspetto va considerata quale diritto ad avere una conferma sociale delle competenze maturate e quindi come risultato di una procedura complessa in cui occorre intrecciare elementi oggettivi e professionali, con elementi soggettivi e partecipativi.

In alcuni percorsi integrati realizzati in istituti professionali di Napoli per affrontare questo ordine di problemi è stato introdotto in orario il “circle time”, il tempo del cerchio in cui – tutti eguali – si parla dei propri problemi nella relazione educativa. Citiamo dalla relazione di Carla Melazzini docente in uno di questi corsi:

“Dentro le mura, il fulcro del percorso di cittadinanza è il circle time settimanale, anch’esso inserito nell’orario curricolare, luogo di costruzione del gruppo, di elaborazione dei conflitti, di gestione dei problemi. Lo spiega così un ragazzo: “ Il Circle Time è un momento della nostra classe dove vengono esposti tutti i problemi che ci sono tra noi e con i professori e poi è anche un momento dove veniamo messi tutti alla pari e nessuno è più importante di un altro, e poi ci mettiamo tutti in cerchio per non far sentire nessuno inferiore a un altro. Io al mio primo Circle Time mi sono trovato bene perché è stata la prima volta dove ho messo davanti i miei problemi con la scuola e nessuno ha detto “no, è così e basta”. In uno di questi Circle Time si decideva se era opportuno o no portarmi a Reggio Emilia a fare lo stage; quando si decise che io era meglio che restassi a casa io mi sentii fuori dal gruppo, ma poi capii che nessuno mi voleva fuori, e che non ero pronto per quell’esperienza, perché poi se ne è parlato in un altro di questi Circle Time e mi hanno fatto capire che non ero pronto e mi fece molto bene quell’esperienza del Circle Time ”. E’ superfluo osservare che questa modalità di affrontare i problemi è antitetica a quella vigente nell’ambiente di vita dei ragazzi. E si può intuire perché il Circle Time sia diventato per loro l’appuntamento settimanale più desiderato. “

Nuove pratiche didattiche:esempi pratici

Analogamente il alcuni corsi professionali è stato introdotto un piccolo modulo di produzione artistica in quanto l’arte è uno strumento potente per esprimere cose che non trovano la strada per uscire da anime chiuse o oppresse.

In entrambi i casi si sono creati complessi problemi di interazione con la struttura curricolare che si sono superati quando tutti i docenti hanno creato lo spazio mentale per questi nuovi costrutti pedagogici. La difficoltà a mettere in atto queste pratiche è solo apparentemente burocratica, in realtà c’è una abitudine culturale e mentale a seguire percorsi standardizzati, per cui c’è forte ed inconsapevole resistenza a battere strade nuove.

Un altro esempio accolto dai presenti è stata la pratica quotidiana della autovalutazione in cui ciascun giovane valuta personalmente se la sua presenza a quella lezione sia stata partecipe o inutile. Questa valutazione quotidiana di partecipazione riportata in tabelle sintetiche aiuta il giovane a valutare da solo se possa ottenere o meno i risultati sperati e soprattutto fino a che punto il giudizio del docente sia arbitrario o fondato su dati di fatto.

Indicazioni generali

L’indicazione generale che si trae da dibattito è che è possibile introdurre elementi nuovi nell’organizzazione scolastica ma la questione è troppo complessa da realizzarsi se non si dispone di un adeguato sostegno anche di esperti in psicopedagogia in grado di aiutare i processi di attivazione di nuove procedure

Insieme a questa risulta indispensabile avere spazi istituzionali e riconosciuti per poter mettersi intorno ad un tavolo per parlare dei giovani affidati alla scuola e delle strategie necessarie ad inserirlo in efficaci processi di apprendimento e di educazione.

La possibilità di istituire una ‘comunità di pratiche, una comunità di professionisti dell’apprendere e dell’educare che rifletta con continuità sulle pratiche didattiche, è la misura più significativa per poter operare un cambiamento nella qualità dell’istruzione e della formazione che non deve essere una riforma, ma la capacità della scuola di riformarsi continuamente in relazione ai cambiamenti dei giovani che la frequentano. Questa comunità realizza concretamente l’idea di “comunità educante” in grado di produrre una offerta formativa integrata, e istituisce la figura del docente quale “professionista riflessivo” in grado di produrre da se stesso il proprio sapere professionale.

Ogni rete professionale, istituzionale, interistituzionale, per essere forte ed efficace dovrebbe fondarsi su una simile comunità, su una cultura professionale condivisa ed in continua evoluzione.