Sopravvivere  
 

Sopravvivere in zona di guerra

Articoli pubblicati su riviste di settore
1. Verbali della violenza
2. Capacità di difesa, e di dedizione; coraggio e altruismo
3. I nostri adolescenti
4. Tra Roncisvalle e le Termopili
5. Gli inoccupabili
6. La possibilità di desiderare

 

Il progetto Chance opera nelle zone di emarginazione sociale e quindi necessariamente entra in contatto piuttosto stretto con gli ambienti della illegalità e della criminalità organizzata o meno.

Con il radicarsi del progetto nel territorio il numero di allievi che provengono da ambienti illegali e criminali sta aumentando, si sta creando una ‘tradizione’ per cui i nostri vecchi allievi e le famiglie, consigliano ai giovani emarginati la nostra scuola. Questo è un segnale molto importante di speranza:i giovani non sono affatto attratti dal mondo di orrore e di morte proposto dalla camorra cercano di uscire disperatamente da qual mondo anche se spesso non solo non ci riescono ma finiscono inconsapevolmente per percorre diritti la strada che li porta ad un destino di morte.

Nel mondo della violenza incontrastata, della guerra permanente è come se le persone fossero agite dall’esterno dalle forze violente che hanno invaso il campo della vita sociale. Noi lavoriamo ad attivare le risorse proprie dei ragazzi, ad abilitare il pensiero e la parola nel governare la propria vita, in inglese empowerment, e così sviluppiamo anche un processo di liberazione dalle forze oppressive esterne. Fino ad oggi questo significato è restato implicito: promuovere la convivenza civile era anche un’azione di contrasto alla criminalità. Tuttavia è proprio il successo del messaggio implicito a sviluppare nuove condizioni: i ragazzi in modo sempre più esplicito ci chiedono come si fa ad uscire fuori.

L’uccisione di Annalisa, una ragazzina caduta innocente nella guerra di camorra, ha fatto esplodere un sentimento ancora confuso ma nuovo: una solidarietà tra ragazzi, che non prevale, ma comincia contendere il campo alle solidarietà verticali interne ai clan e ai territori. Ci sono stati, lontani dai riflettori e dalla logica dei clan, minuti di silenzio, momenti di commozione, che hanno coinvolto, non i giovani estranei alla camorra come tante volte è avvenuto, ma proprio quelli che per nascita vi appartengono.

Nel modulo del quartiere San Giovanni è aperta da molto una discussione su questo punto, da quando fu ucciso il fratello diciottenne di Concetta(nome di fantasia) per una vendetta trasversale. In seguito si era sviluppata intorno al caso di Nino (nome di fantasia) che dopo aver effettuato felicemente il percorso formativo fino ai diciotto anni si era lasciato arruolare nel peggiore dei modi. Ma la vera svolta era avvenuta pochi giorni prima della morte di Annalisa in seguito alla uccisione del padre di Vittorio (nome di fantasia), quando, grazie al lavoro dei docenti e degli educatori del modulo Chance di San Giovanni, per la prima volta si riesce a discutere esplicitamente delle paure e delle angosce di ciascuno.

In questo contesto cade il seminario di formazione degli operatori di Chance cui si riferisce il presente scritto. Riproduco la relazione conclusiva del lavoro che nel giro di un mese ha portato a discutere in classe temi di inaudito orrore e la relazione introduttiva alle due ricchissime giornate di lavoro che i docenti di Chance hanno realizzato il 13 e 14 maggio 2004

Verbali della violenza

(dallo scritto della docente Annamaria)

Quando Annamaria, la docente tutor di Vittorio tenta di parlare alle poche ragazze rimaste in assemblea del suo rientro, Giovanna, che è tornata proprio quel giorno, esclama “ ah, professoré, allora quello che hanno ucciso era il padre di Vittorio! Mamma me l’aveva detto…” (per inciso: negli organigrammi pubblicati dai giornali le famiglie di Giovanna. e di Vittorio sono situate su versanti opposti).

Poco dopo Giovanna fa uno scatto dalla sedia, scappa fuori e va nel bagno; mamma Patrizia le va dietro, e rientra dopo qualche minuto dicendo che Giovanna vuole parlare con la sua tutor. Annamaria va incontro a Giovanna che sta piangendo a dirotto, la abbraccia e la porta in sala docenti:“Giovanna cosa è successo, all’improvviso?” “professoré, ho paura che pure mio padre fa la stessa fine” “Giovanna, ma che dici, papà non sta in carcere?” “si, ma quando esce lo aspettano, e sicuramente lo uccidono.” E continua a piangere a dirotto.

Annamaria ammutolisce, si sente addosso il peso di una responsabilità troppo forte: deve calmare la ragazza, ma non può negare, tanto meno sottovalutare ciò che sta dicendo, che è la verità: é la prima volta che un ragazzo dice così chiaramente e con tanta angoscia il pericolo a cui é esposta la sua famiglia, ammettendo quindi l’appartenenza ad un clan malavitoso. La tutor timidamente avanza una ipotesi di via d’uscita: “No professorè! Non se ne può più uscire, ormai l’ha fatta la scelta, quelli lo aspettano. Ci doveva pensare prima a non mettersi dentro, non ha scampo.” E continua a piangere.

Vittorio scrive (riportato dalla docente Amalia)

Caro Papà,

scrivo questa lettera per dirti che mi manchi moltissimo mi hai lasciato un vuoto incolmabile lo so che questa lettera non la potrai mai leggere o forse sì; il destino è stato molto crudele con me con te e con tutti noi. Mamma non riesce a trattenersi quando viene al cimitero, ma io non mi sfogo con nessuno; tutte le mie emozioni le sto scaricando proprio adesso A volte penso tutte le cose belle che abbiamo fatto insieme. Ti ricordi quando mi hai comprato il cavallo. Io ti avevo detto papà mi compri il cavallo e tu mi hai risposto di no ma poco dopo mi hai chiamato dalla finestra e mi avevi portato il cavallo. Adesso ti saluto con queste poche lettere dicendoti ti voglio un mondo di bene by tuo figlio Vittorio.

Poi Vittorio disegnò e scrisse: Questo è il segno del male per me rappresenta la guerra e a me mette molta malinconia.

Vittorio racconta (dallo scritto di Fortuna e Rosanna “madri sociali”)

Oggi 4 maggio dopo la mensa ci siamo ritrovati tutti in un’aula, in attesa degli esperti di laboratorio: io e mamma Rosanna e dieci ragazzi. Giovanna P. e Maria si mettono a parlare di sedute spiritiche: a questo punto Vittorio dice “mamma Fortuna, vi voglio dire una cosa”. …… Ha iniziato il suo racconto dicendo che quando si stende sul divano sente la mano del padre sulla spalla, che quando la sera prima di andare a dormire saluta la sua foto con un bacio avverte un brivido lungo il braccio. Arriva poi alla mattina dell’uccisione. “Mamma Fortuna, io avevo la febbre alta e stavo a letto, quando mia madre gli ha chiesto di andare a comprare delle cose che le servivano lui ha accettato dicendo che si sarebbe trattenuto in giro, come al solito. Mentre rientrava lo hanno ucciso”. Aggiunge che ogni mattina uno zio andava a casa a salutarlo, e lui rispondeva “agge’ campato n’ato iuorno”. (sono vissuto un altro giorno)

Poi Vittorio ha detto che lui stava male perché era venuto a sapere che gli omicidi erano due ragazzini, perché era ossessionato dall’idea che questi andassero insieme agli altri sulla tomba del padre: che cosa doveva fare se li avesse riconosciuti? Prima che possa rispondere, Luigi dice di essere certo che suo padre quando uscirà dal carcere farà la stessa fine di quello di Luigi…

(Dallo scritto della docente Rita)

…..Vittorio disegna bene, prediligendo il chiaroscuro; lunedì ha iniziato la riproduzione di un Picasso: gli è piaciuta subito quella donna strana, mi ha detto di volerla inserire in un paesaggio. Ci troviamo proprio vicino alla sua tela sul cavalletto, e parliamo di arte e di artisti. Vittorio non vorrebbe smettere, ma porto l’attenzione sulla trasmissione “Racconti di vita” che hanno appena visto tutti insieme. Parlo di Ciro, il giovane di Barra che parla nel filmato, racconto brevemente la sua storia, che è una storia positiva, e chiedo ai ragazzi se è possibile tirarsi fuori dalla cattiveria presente nel quartiere. Vittorio dice che si può cambiare, restare fuori dal giro .

Come vedono il loro futuro ? cerco di coinvolgere anche Vito che parla della sua passione di diventare parrucchiere; Vittorio conferma l’intenzione di andare a lavorare, come mi aveva detto la mamma . “Mi devi promettere che non abbandonerai la tua passione, che disegnerai sempre”

“ professoressa, io ho sempre disegnato ….”

Fare una camorra

L’organizzazione camorristica è l’unica organizzazione di carattere mafioso che ha avuto e continua ad avere, caratteristiche di massa. (Violante: Non è la piovra – Einaudi 1994)

Bisogna ricordarsi di questa espressione perché stabilisce i confini di un modo di comportamento che accomuna gli ambienti più diversi: fare una camorra è fare un atto di prepotenza approfittarsi di una posizione di forza o di vantaggio, escludere altri da un beneficio. L’espressione linguistica è come spesso accade la manifestazione di una realtà sociale particolare: non si dice fare una mafia, perché mafia è l’essere e non l’attività. Così si può dire che i docenti fanno una camorra se riservano a se diritti che non concedono ai ragazzi o ai lori genitori, che nei servizi sociali c’è camorra di alcune persone a danno di altre, che il comune fa la camorra con i suoi protetti etc… L’aggressività camorristica è molto più diffusa e manifesta di quella mafiosa perché trova sistematicamente nel suo avversario quelle stesse caratteristiche che si rimproverano a lei. Sotto questo aspetto una funzione di riequilibrio sociale – il riequilibrio della prepotenza, la democrazia dei violenti - è connaturato alla camorra. Il riequilibrio della prepotenza porta alla sistematica, implicita ed esplicita connivenza con ogni altra forma di illegalità e prepotenza, comprese le forme di prepotenza ammantate di legalità apparente o di rivendicazionismo para sindacale. Nel mondo dominato dalla regola della camorra – ossia della prepotenza pervasiva - i confini tra rivendicazione democratica e partecipativa, diritti sindacali, mutua assistenza da un lato e minaccia, accattonaggio, estorsione, dall’altro, sono piuttosto labili possono essere attraversati ripetutamente dalle stesse persone in ogni momento. Come simbolo di questo modo di fare propongo quello di uno dei primi genitori camorristi che ho conosciuto (1984) che a capo al letto esponeva la Madonna, Stalin e Cutolo,

Il sincretismo camorristico affonda le sue radici nel sincretismo linguistico e nel sincretismo vitale di un intero strato sociale.

Aggressività, difesa, ricerca di protezione

Dobbiamo accettare che in noi stessi ci sia violenza ed aggressività. …L’uomo si è data una cultura e delle istituzioni che consentono di gestire in modo incruento i bisogni essenziali, più che altro confidando nella illimitata espansione del dominio della propria specie. Tuttavia violenza ed aggressività fanno parte del nostro essere, sono il risultato più ordinario delle nostre emozioni più profonde.

Anche se non ce ne accorgiamo più la cooperazione è una forma di aggressività deviata e sublimata, il risultato di un processo evolutivo e storico estremamente complesso e mai concluso dentro cui ha un posto decisivo quello che a Chance chiamiamo spazio della parola e del pensiero. Parola e pensiero ci offrono due risorse aggiuntive: la rappresentazione mentale dell’ambiente che allarga gli spazi di fuga, la memoria, narrazione di sé, che fornisce schemi d’azione collaudati.

Nel bambino piccolo parola e pensiero non sono ancora adeguatamente sviluppati; la risposta immediata di fuga e aggressione è in pratica l’unica possibile, ma viene temperata dalla presenza dell’adulto: l’adulto diventa meta della fuga: riparo sicuro e protezione di fronte alla minaccia. Posizione protetta da cui il cucciolo scrutando il mondo comincia ad allargare il repertorio delle risposte al pericolo.

Quanto profondamente violenza ed aggressività ci appartengono noi vogliamo ignorarlo e ogni volta che ci troviamo di fronte ad una manifestazione di queste tendiamo a stigmatizzarla: camorra e mafie sono le depositarie di tutti gli orrori possibili del nostro animo, ricettacolo delle violenze che non vogliamo commettere. Ma dichiarandoci inaccessibili alla violenza e alla aggressività ci dichiariamo anche inaccessibili ad alcuna forma di interazione con le persone che a mafia e camorra, per scelta o per forza, appartengono.

Il Minotauro, mezzo uomo, mezzo bestia, protetto nei meandri di un gigantesco e complicato edificio fatto costruire da un re, ogni anno ingoiava sette giovanetti e giovanette di Atene, e questa maledizione sarebbe continuata se Teseo non fosse andato a fargli visita da vicino non senza essersi assicurata la via del ritorno. Ogni anno la mezza bestia, protetta da un labirinto sempre più complicato di inconfessabili e diffuse complicità, ingoia sette ragazzi e sette ragazze di Napoli e noi non facciamo altro che rinforzare i muri della sua prigione al tempo stesso chiudendo le vie di fuga ai giovani che vi sono intrappolati.

Quanto questo nostro comportamento sia il vero mostro l’ho sperimentato più volte a proposito di bambini della scuola materna: nel mio mese di lavoro in questa scuola c’era un bambino che piangeva dall’inizio alla fine della giornata e cercava disperatamente un suo cugino o zio che stava in prima elementare perché ‘aveva vattere a tutt’ quant’”. (doveva picchiare tutti) I miei colleghi commentavano: “così piccolo è già camorrista”. proiettavano sui bambini piccoli lo stigma della violenza senza pensare che erano i camorristi ad essere in certo senso bambini e non il viceversa.

Così non c’è scampo, dobbiamo far visita al Minotauro, abitare il suo stesso labirinto e tracciare la strada con il filo della parola e del pensiero, se no siamo noi stessi a spingere i giovanetti nelle fauci del mostro.

(nella seconda parte: identificazione e reclutamento, come interrompere una perversa tradizione)

Capacità di difesa, e di dedizione; coraggio e altruismo

Nella prima parte si è analizzato il modo in cui cerchiamo di esorcizzare la violenza. Cerchiamo ora di capire qualcosa proposito del meccanismo inesorabile per cui le colpe dei padri diventano anche colpe dei figli.

Uno dei punti importanti del passaggio all’età adulta è assumere le capacità di protezione, difesa che fino a quel punto sono state degli adulti. Il superare prove di coraggio, dimostrare capacità di dedizione e di altruismo costituiscono momenti essenziali di questo passaggio, è come se l’adolescente lasciata la casa avita per sperimentare in proprio i pericoli del mondo vi facesse ritorno dimostrando di poter essere il nuovo padrone di casa. Nella favola di Hansel e Gretel questa nuova capacità dei giovani viene simboleggiata dalle tasche piene dei gioielli sottratti allo scrigno della strega: i bambini ritornano alla casa del padre che era stato incapace di nutrirli con i mezzi per vivere e per essere i nuovi padroni di casa.

Generalmente è questa la situazione in cui il conflitto con i genitori diventa acuto e può concludersi con uno scontro cruento, è la fase in cui i figli spodestano i padri o i padri attaccano preventivamente i figli: è il momento in cui Edipo uccide Laio, in cui i figli di Crono spodestano il padre…..

Che cosa succede quando si vive in una situazione di pericolo incombente n cui le capacità di difesa e protezione del genitore sono messe a dura prova e si dimostrano inadeguate. Succedono varie e contraddittorie cose contemporaneamente: accade che si ricerchi vagamente un padre sostitutivo in grado di fornire la protezione che non fornisce il genitore: E’ forse il caso di quei ragazzi di famiglie duramente emarginate che sono reclutati e affiliati da “ladri di bambini” che li avviano precocemente ad assumere ruoli adulti coinvolgendoli in attività criminali. A San Giovanni e in analoghe situazioni si realizza una forma di reclutamento particolare che consiste nell’affidare ai ragazzi ‘abbandonati’ la cura degli animali della camorra (cani o cavalli); in altri casi sono i ragazzi stessi che si dedicano alla cura di animali anche randagi. La cura degli animali rappresenta il bisogno di mostrarsi capaci di protezione verso i più deboli, è come esercitare il proprio dominio in un ambito altro quando l’ambito familiare è troppo sfasciato per costituire il luogo per la lotta di potere. Se la famiglia è sufficientemente strutturata la competizione con il padre si manifesta nel desiderio di affiancarlo nell’esercitare la difesa comune: c’è un insieme di cooperazione e competizione in cui i giovani cercano di dimostrare, cooperando, di essere comunque migliori del padre. La situazione di scontro con il nemico esterno maschera il conflitto intestino. Sappiamo che questo desiderio di fiancheggiamento è tanto più forte quanto più il genitore cerca di tenere i figli all’oscuro della propria attività di soldato della camorra: il figlio legge in ciò il desiderio di escluderlo dal potere piuttosto che la manifestazione di un gesto di paterna protezione.

Cosa succede quindi quando il genitore resta ucciso nel corso della guerra?

I giovani che stavano tentando di affiancarsi e di competere con il padre sentono di essere stati inadeguati, di non aver saputo assumere il proprio posto di combattimento. La responsabilità indiretta nella morte del genitore di mescola certamente anche al senso di colpa relativo al simbolico desiderio di prendere il posto del genitore.

Uno dei fenomeni che più mi ha colpito nelle relazioni con i giovani resi orfani dalle guerre di camorra è stato l’attaccamento postumo a genitori in precedenza ignorati o apertamente rimproverati, e la idealizzazione progressiva della loro figura fino alla identificazione in essi e alla coazione a ripetere le loro gesta comprese quelle che li hanno condotti a morte.

Nella storia di M, M segue il copione della storia del padre morto quando lui era ancora molto piccolo, avendo la perfetta consapevolezza che si stava cacciando nelle stessa trappola e con le stesse persone che avevano portato il padre a morire. Nella mia relazione con M. mi ero illuso che questa lucida consapevolezza fosse per lui un deterrente, in realtà era ciò che lo attraeva perché gli consentiva di competere con la figura del padre morto, di dimostrarsi più capace di lui proprio nella situazione in cui quello aveva fallito.

Nel suo caso addirittura si vede come questo sia stato anche il modo di regolare il conflitto edipico.

Nella saga familiare, la morte del padre viene descritta come conseguenza del suo amore per la moglie e madre di M.: sia la madre, sia quelli che hanno trascinato il padre in uno scontro tra bande concordano sul fatto che il signor N. si sia procurato la ferita che lo portato a morire per uscire di galera e raggiungere moglie e figli. La madre di M ritiene che questo fosse parte di un processo di attaccamento alla famiglia che lo aveva portato a prendere le distanze dai clan, viceversa i membri del clan ritenevano che questa fosse la debolezza che lo ha portato a morire.

M. in un certo senso ha dovuto percorrere la strada opposta dimostrando di essere abbastanza uomo da lasciare la madre e di saper affrontare lo scontro di potere con i capi padri e padroni da solo e senza cedere a femminee debolezze familiari.

Che ci fosse in ballo una simile questione l’ho percepito acutamente dal seguente episodio: eravamo alla stazione centrale con M e la Madre che stavamo organizzando uno di quegli allontanamenti temporanei con cui abbiamo cercato di sfuggire all’inesorabile destino che lui stesso stava costruendosi. Mentre parliamo di avvicina una zingara a chiedere l’elemosina e io in modo fermo le dico che non faccio l’elemosina. M. quando la vede allontanarsi le mette una mano sulla spalla per richiamarla indietro e in modo ostentato tira fuori dalla tasca dei jeans una consistente elemosina e gliela mette in mano prima che quella neppure faccia il gesto di tenderla. Mi rendo conto dai movimenti che sta dicendo a lei e a me: io solo sono in grado di capire e di agire nel modo giusto. Con quel gesto M. si stava congedando da me. Anni prima mi aveva detto che io rappresentavo il vero eroe perché capace di affrontare i problemi di ogni giorno accanto ai ragazzi che soffrivano. Pochi giorni prima, non richiesto, mi aveva raccontato tutta la storia del padre descrivendo a fosche tinte il ruolo di quelle stesse persone che lo stavano reclutando. Ora mi stava dicendo che di fronte alla mia incapacità di protezione lui era pronto a sostituirmi, così come era pronto a sostituire la figura del padre morto. Venti giorni dopo era definitivamente arruolato da quelli che la madre – e lui stesso - descriveva come responsabili morali della morte del padre.

Distorsioni della relazione di cura

Voglio sottolineare che anche nel caso di M. è presente l’elemento della cura e della solidarietà come momento di passaggio significativo nel processo di reclutamento. I primi incontri con il reclutatore avvengono perché lui è agli arresti domiciliari, si sente solo ed ha bisogno di aiuto. M. addirittura insegna al figlio piccolo alcuni rudimenti di informatica. Quando la madre tenta di impedire questi incontri M. la accusa di infamità e di mancanza di umanità. Così il primo episodio in cui M. monta la guardia avviene proprio per un moto immediato di difesa. Lo stesso fratello minore di M che è del tutto distante dalle tentazioni delinquenziali, mi dice che lui non può fare a meno di difendere e aiutare quello che è un parente quando lo vede in pericolo. Io stesso, quando la madre mi chiede di intervenire, le dico che in fondo non può rimproverare a un ragazzo di avere questi moti di solidarietà, piuttosto occorre costruire insieme una capacità di giudizio più complessa dell’intera situazione.

Riconosco qui un altro meccanismo infantile che ho incontrato spesso nei miei allievi e che fa parte addirittura del repertorio etologico dei primati: mettersi in pericolo, mostrarsi bisognosi di aiuto per provocare l’intervento di cura e protezione da parte dei congiunti o dei commilitoni. Un meccanismo che ho personalmente sperimentato ai tempo del cosiddetto antifascismo militante quando c’erano i professionisti dell’allarme che cercavano di trascinarci sistematicamente in situazioni di emergenza e di scontro (in almeno tre casi ho smascherato a suo tempo addirittura episodi di autolesionismo finalizzati a simulare una aggressione subita). La potrei chiamare sindrome del “al lupo, al lupo” (c’è un raccontino infantile edificante che narra di un ragazzo che si divertiva a gridare al lupo per far accorrere inutilmente gli adulti, finchè quando il lupo ci fu davvero nessuno gli credette) che sfrutta l’umana sensibilità alle grida di dolore, i moti spontanei di pietà verso chi soffre.

E’ questa una componente presente anche nei riti di corteggiamento in entrambi i sessi, ma soprattutto nei maschi verso le femmine: da un lato occorre mostrarsi forti e virili, capaci di proteggere e difendere la sposa e la futura prole, dall’altro ci si mostra deboli e sofferenti per stimolare le risposte di cura nella femmina. Nei rituali di seduzione delle giovani ragazze, cui spesso collaborano attivamente le suocere, il tentativo di coinvolgere le ragazze nel ruolo di infermiere-amanti-madri è esplicito e codificato; la convivenza delle ragazze nella casa della madre dello sposo – in quanto è la suocera a iniziarla alle regole della cura per il marito-padrone – viene esplicitamente proposto come tirocinio e comprende anche il ‘fare i servizi’ alla suocera. Se il candidato è agli arresti domiciliari la situazione è addirittura ideale per sperimentare contemporaneamente capacità di dedizione e cura, disponibilità sessuale, subordinazione alle regole della casa.

Ho affrontato per la prima volta questo problema durante un corso per genitori a Barra: una madre era preoccupata perché la figlia stava mostrando una pericolosa inclinazione per un giovane delinquente. Attraverso la sua descrizione intuii che i suoi interventi finalizzati a scoraggiare questa inclinazione puntavano sulla sottolineatura dei rischi a cui il giovane andava incontro. Con alcune domande riuscii a farle notare che più precisa e circostanziata diventava la sua denuncia dei rischi più la figlia si attaccava al giovane. Le dissi che era proprio questo che la figlia le voleva dimostrare: che lei era più adeguata di sua madre a sostenere un uomo in pericolo. Fu una specie di rivelazione che indusse la signora a considerare i sentimenti positivi che producevano risultati così negativi e quindi a stabilire un migliore contatto con la figlia. Lo stesso identico procedimento si verificò in seguito con un'altra madre la cui figlia “brava ragazza” tutta casa e scuola si stava improvvisamente innamorando di un tossicodipendente.

La capacità di cura e di dedizione femminile devono essere particolarmente forti in quanto devono consentire di superare i periodi di vedovanza bianca durante le carcerazioni ed infine andare oltre la morte stessa. Il culto dei morti così presente nella vita quotidiana dei nostri ragazzi e soprattutto delle ragazze, rappresenta il terreno sul quale avviene anche il confronto competitivo tra madre e figlia, suocera e nuora: come se la competizione per sedurre il maschio dominante si trasferisse sul piano della esibizione delle capacità di dedizione a lui. La teatralità e spettacolarizzazione delle manifestazioni di dolore e di lutto sono quindi parte essenziale dei rituali funebri.

Vedo in questo una realizzazione sul piano simbolico dell’usanza di seppellire la vedova insieme all’estinto, un seppellire la propria femminilità come dovere sociale nei confronti dell’estinto. Questo dovere può estendersi alle figlie. In più di un caso di fronte alla morte del genitore, mentre il maschio vuole armarsi, alcune nostre ragazze hanno dichiarato la propria disponibilità a morire affianco al genitore.

Le stesse gravidanze precoci, quando siano esplicitamente e tenacemente ricercate, possono essere lette insieme nel quadro di una esibizione delle proprie capacità di generazione e cura e dall’altro come competizione con la madre e con la suocera tendente a spodestarle dal loro ruolo dominante.

A conclusione di questa parte voglio sottolineare che alla base dei processi di identificazione nei ruoli delinquenziali e nei processi di affiliazione ai clan di delinquenti sono presenti sentimenti primitivi non elaborati e persino positive spinte altruistiche e solidaristiche distorte da un campo di forze ‘negativo’. L’errore che non dobbiamo commettere è che per stigmatizzare il pericolo della situazione non trasferiamo sui sentimenti positivi e sulle persone lo stigma del rifiuto e della presa di distanza. Noi possiamo allearci con i sentimenti e le emozioni positive e trovare modi socialmente produttivi per esercitare solidarietà e cura in un quadro di convivenza e pacificazione piuttosto che in quadro di guerra. Qualche volta la nostra difficoltà a parlare e ad entrare in contatto con le emozioni dei nostri ragazzi si collega con una rappresentazione stereotipa ed orrifica della camorra ed insieme con la mancata elaborazione e l’assenza di un pensiero riguardo alle dinamiche che hanno coinvolto e coinvolgono le nostre relazioni primarie.

I nostri adolescenti

Ognuno di noi individualmente e professionalmente, nella vita ha uno specifico problema in rapporto all’adolescenza. Si tratta di una età di trasformazione, orientamento, ingresso in cui ciascuno è chiamato a ridiscutere il senso della società umana e il senso stesso della vita. Per poter accogliere l’altro siamo costretti a rivedere i motivi stessi del nostro esistere. Non c’è spazio per i falsi, anche d’autore, non c’è spazio per funambolismi verbali, non c’è spazio per il principio di autorità, né quella della storia né quella delle tradizioni, né nell’autorità morale riposta in gloriosi passati. Gli adolescenti fiutano il falso, l’imbroglio, la circonvenzione, il tentativo di plagio a miglia di distanza, diffidano per definizione, sono una macchina bellica di grande efficacia nel distruggere miti e supponenze.

Gli adolescenti ‘difficili’ sono tutto questo con qualcosa in più: hanno sperimentato genitori inadeguati, ossia deboli nel fronteggiare le difficoltà della vita e i problemi di relazione innanzi tutto per se stressi ed a maggior ragione per i figli, hanno sperimentato una scuola che piuttosto che promuoverne le capacità li ha bollati, marchiati, ruolizzati o come incapaci o come asociali o come l’uno e l’altro; hanno sperimentato adulti non sufficientemente adulti che hanno accettato le loro sfide al loro livello di aggressività, si sono messi in competizione con loro perdendo inesorabilmente ogni partita. Hanno quindi motivi di diffidenza, rancori, dolori moltiplicati all’ennesima potenza.

Gli adolescenti difficili che vivono in ambienti emarginati, senza leggi, fuori delle normali regole di convivenza, aggiungono a tutto questo lo stress quotidiano di una vita pericolosa, delle leggi selvagge che regolano la vita criminale, delle condanne a morte in attesa di esecuzione, delle campagne di arruolamento degli eserciti criminali. La più grande tragedia di questi ragazzi è di non poter vivere il loro periodo di orientamento e transizione in modo veramente libero, di doversi affidare precocemente a certezze che sono impresse nella loro carne con il marchio della morte. C’è un calcolo sbagliato che aleggia in troppi ambienti: lasciamoli al loro destino (o peggio lasciamoli ammazzare tra di loro): ogni ammazzato induce altri – soprattutto giovanissimi – nella stessa spirale autodistruttiva. Le persone morte dentro (“cotte sotto”, come ha scritto un nostro ex allievo finito in carcere) sono alla ricerca della propria fine e sono disposte a uccidere perché non hanno in nessun conto la propria e quindi l’altrui vita.

Se tutto questo evolve senza un serio aiuto adulto sfocia in una ricca messe di patologie sociali e mentali: l’aggressività irrisolta diventa paranoia, schizofrenia e/o criminalità militante; il senso di angoscia e di paura diventa depressione cronica, abulia, complesso di persecuzione. Le gradazioni di queste patologie possono variare dal grado minimo di una struttura di personalità autoritaria o dipendente, o – al grado massimo - in patologie conclamate, tuttavia il risultato è ineluttabile.

E’ in questo quadro che noi del progetto Chance ci accingiamo ad inaugurare il nostro settimo anno di lavoro con gli adolescenti difficili. Vediamo quali sono le novità e se in qualche modo riusciamo ad affrontare qualcuno dei problemi in campo.

La prima consistente novità è che ci stiamo avvicinando ad un assetto istituzionale più solido di cui magari parleremo in seguito. Ora però ci interessa sottolineare che ‘la scuola della seconda occasione’ che molti bollano superficialmente come scuola ghetto, scuola speciale o altri epiteti usati - come si usa il drappo rosso davanti ai tori - per evocare irrazionali paure, rappresenta un tentativo serio di stabilire una relazione sociale con persone che sono virtualmente fuori del consorzio civile. La seconda occasione non è un secondo tentativo, ma un modo diverso di accogliere e far crescere giovani vite. Lungi dall’essere un ghetto o una scuola di seconda scelta - come si usa per indicare i pezzi difettati della produzione industriale – è in un certo senso una scuola di eccellenza in cui si propone ai giovani il meglio che una società adulta è in grado di offrire loro.

La seconda novità è che per la prima volta nell’armamentario di lavoro del progetto Chance sono disponibili corsi di orientamento e formazione professionale abbastanza adatti ad allievi difficili.

La formazione professionale. Più ci occupiamo di questo più ci rendiamo conto che al centro del rapporto con gli adolescenti c’è questa questione. Non solo per gli adolescenti difficili, ma per tutti. La formazione professionale e un primo contatto con il lavoro è come riconoscere ai giovani il potere di disporre della propria vita (“voglio poter fare una cosa mia” dicono i nostri adolescenti smaniosi di trovare lavoro) e questo dovrebbe essere un diritto riconosciuto a tutti i giovani tra i 13 e i 15 anni. Un tempo lontano, ma non troppo (tre quattro secoli a seconda dei luoghi) quando le ‘unità produttive’ coincidevano con le unità familiari o parafamiliari – le piccole comunità – il giovane sperimentava se stesso a fianco dei genitori, e desiderava farlo perché questo, come si è detto nei precedenti articoli, faceva parte della buona competizione con i propri genitori in attesa di prenderne il posto. Il lavoro quindi rappresenta innanzi tutto un momento di crescita personale e l’inizio di un percorso di ingresso nel mondo adulto. I primi contratti di apprendistato della seconda metà del cinquecento indicavano chiaramente che il datore di lavoro era solo un sostituto provvisorio del genitore e come tale si doveva comportare: tra apprendistato e affido non c’era profonda differenza. Tuttora nelle zone popolari di Napoli troviamo traccia di questa modalità di “affido lavorativo”. Viceversa la cultura diffusa - ed in particolare una consistente parte della cultura che si ritiene democratica - bolla il lavoro minorile come crimine. E’ crimine lo sfruttamento, la pericolosità, la nocività, l’illegalità, i carichi di lavoro eccessivi, il tempo di lavoro illimitato e quant’altro possiamo aggiungere al repertorio del lavoro sfruttato ed illegale, ma non è crimine il lavoro minorile in sé. Anzi.

Se solo potessimo riflettere con mente sgombra da pregiudizi sociali e pregiudizi idealistico-gentiliani ci renderemmo conto che a tutti i ragazzi dovrebbe essere offerta la possibilità di sperimentarsi nel lavoro e di mostrare a se stessi di avere le capacità di provvedere a sé. Quanti ragazzi che frequentano i nostri licei classici soffrono per questo e sono costretti ad inventarsi le cose più strane per saggiare le proprie autonome capacità ( dalle band musicali alle bande teppistiche). Quanti giovani che frequentano i licei e le scuole professionali licealizzate sono inesorabilmente spinti verso professioni ‘di concetto’ perché incapaci – per ignoranza e pregiudizio - di cogliere occasioni nella produzione di beni e servizi.

L’attuale contratto di apprendistato è un vestito troppo stretto sia per i ragazzi sia per le aziende: si tratta di un vero e proprio contratto di lavoro non proponibile ai ragazzi che hanno voglia di sperimentarsi ma non di vincolarsi, per le aziende che hanno bisogno di giovani formati per i quali l’apprendistato rappresenta un complemento di formazione subito prima del contratto di lavoro e non di giovani poco formati ed ancora incerti sulle proprie scelte.

Viceversa i tirocini formativi o gli stage aziendali hanno un grande valore perché sono strumenti insieme flessibili e polivalenti soprattutto per un avvicinamento graduale dei giovani alla cultura del lavoro.

Uno degli argomenti usati contro la formazione professionale dai promotori della via liceale all’eguaglianza sociale è la precocità della scelta e la considerazione della formazione come ‘scuola di serie b’: l’indirizzo pratico della formazione contrasta infatti con l’ideale della ‘formazione gratuita’, disinteressata. Tra i tratti distintivi della formazione disinteressata c’è, nel campo intellettuale l’espressività artistica, nel campo del corpo la pratica sportiva. Viceversa nella tradizione della formazione professionale è come se si considerassero i futuri proletari rudi nel corpo e nello spirito, e queste attività non fanno parte del percorso formativo. Infine occorre considerare che nella scuola si realizza anche una sorta di educazione sentimentale che un tempo si realizzava tacitamente per l’omogeneità tra la classe insegnante e i ceti professionali che affidavano alla scuola il compito implicito di perfezionare l’educazione alle buone maniere; lo stesso compito oggi – in tempo di democrazia e di libero accesso alle scuole - è affidato alla esclusività delle frequentazioni: una buona scuola è quella frequentata da giovani ben nati e vengono messe in atto le misure più diverse per impedire pericolose frequentazioni tra ambienti sociali diversi. Il grado di segregazione sociale cresce paradossalmente in una situazione in cui l’accesso all’istruzione non è più limitato da barriere economiche o da discriminazioni sociali: va bene istruire tutti ma non a contatto con i miei figli. Il meccanismo della segregazione è senza fine: le scuole di periferia di per sé emarginate, quando sono frequentate dai ragazzi più emarginati si svuotano progressivamente finché restano solo i reietti: al mattino si incrociano per le vie dei quartieri pullman multicolori che portano i ragazzi ‘bene’ nelle scuole buone dei quartieri viciniori: è un ‘bussing’ inverso a quello praticato per i neri negli Stati Uniti degli anni 70 quando ci si illudeva di poter combattere la segregazione con misure amministrative. Anche i figli dei boss si allontanano e le loro madri dicono che ‘l’abbiente’ (c’è una bella allitterazione tra ambiente e ceto abbiente) dove spacciano i propri soldati non è buono per i loro figli. Così a noi restano solo i figli della carne da cannone. Quelli che si preoccupano che la nostra sia una scuola ghetto mai si sono preoccupati dell’esistenza di ghetti sociali, quindi non vedono che la nostra non è una scuola ghetto ma una scuola del ghetto e nel ghetto e che tenta di contribuire a che il ghetto non resti tale.

Così nel nostro progetto di formazione professionale, non potendo importare ragazzi ben nati nei nostri quartieri, c’è spazio per l’arte, per la pratica sportiva, per l’educazione dei sentimenti, per lo sviluppo di comunità, per le pratiche partecipative: non dobbiamo fare solo formazione professionale ma promozione della cittadinanza per ragazzi che sono emarginati insieme alle comunità in cui vivono.

Una simile attività si svolge sperimentalmente in 12 scuole della Campania e bisogna dare atto alla Regione e alla direzione del MIUR di aver accettato questa sfida e questa innovazione affidando la gestione di questi corsi ad una rete territoriale in cui siano presenti oltre alle scuole e alla formazione professionale anche il privato sociale e i servizi territoriali più vicini alle problematiche giovanili, in modo tale che possano interagire positivamente tre luoghi formativi diversi: scuola, formazione, centri aggregazione giovanile. In questo modo forse riusciamo a proporre come modello più generale una caratteristica del progetto Chance che al momento resta unica in Italia, quella di integrare in un progetto complesso le istituzioni più forti e più difficili da tollerare per i giovani, con istituzioni a bassa soglia di ingresso e sostanzialmente autogestite. Altrove la collaborazione tra scuola, formazione, centri per la partecipazione giovanile - se c’è - è affidata a complesse procedure di rete ‘esterne’ al lavoro sul campo che finiscono a delimitare le zone di influenza piuttosto che costruire integrazione; ciò porta a sviluppare conflitti piuttosto che creare aree e pratiche di mediazione.

Noi sappiamo che questo può funzionare, che con queste metodologie è possibile sostenere e valorizzare gli apprendimenti informali dei giovani, promuoverne la partecipazione, aiutarli a ritrovare sé stessi; sappiamo anche che sono necessarie professionalità complesse e continuamente sostenute per reggere l’impatto di realtà difficili e stressanti. Purtroppo i meccanismi dei bandi e la povertà generale di risorse professionali e di organizzazioni adeguate finiscono per ostacolare la piena utilizzazione di questa opportunità per assenza di una regia pubblica sulla distribuzione e sulla utilizzazione di queste risorse. Oltre a fare a noi stessi gli auguri per questa nuova impresa sappiamo che ci tocca affrontare, in corso d’opera, anche questo problema.

Tra Roncisvalle e le Termopili

In una delle tante ricerche sulla dispersione scolastica venivano proposte delle associazioni per indagare indirettamente sul modo di vedere dell’intervistato. Una di queste riguardava l’associazione della dispersine scolastica ad una opera o immagine letteraria. Un tecnico di laboratorio di un istituto professionale – quindi una persona che non coltivava professionalmente lo studio della letteratura – rispose senza esitazione “Orlando a Roncisvalle”. E alla domanda sul perchè avesse fatta quella associazione: “Perché suona il corno e nessuno lo sente”. Orlando, dopo la vittoria di Carlo Magno sui saraceni era stato lasciato alla retroguardia a difendere le spalle dell’esercito. In realtà c’era stata una congiura per organizzargli un agguato. Orlando aveva un corno dal suono possente per chiamare in aiuto il grosso delle forze, ma non volle suonare se non quando era ormai morente. Si sa quindi che fu proprio Orlando a non voler suonare l’Olifante, tuttavia in molte parafrasi consultate ho ritrovato questo falso ricordo: Orlando suona e non viene ascoltato. Forse – interpreto – Orlando, come accade ai bambini mai ascoltati, non suona perché teme di non essere ascoltato. Questa immagine mi torna alla mente in questi giorni mentre decolla l’ennesimo progetto, l’ennesimo tentativo di affrontare l’epica battaglia contro la dispersione scolastica e formativa: dovremmo essere la retroguardia di un esercito vittorioso che sa dare ai giovani cultura istruzione, speranze ed invece ho la sensazione che le cose non stiano in questo modo. . Mi torna in mente anche Leonida guerriero ultrasessantenne che, insieme a trecento giovani opliti, alle Termopili ferma l’avanzata dei barbari per dare tempo alle città dell’Attica di organizzare un grande esercito. Ma il confronto più pertinente sembra proprio quello di Orlando morto in una battaglia in fondo inutile, per causa combinata di un tradimento, di una vendetta degli sconfitti, del proprio orgoglio e della propria fedeltà di perfetto paladino.

A me sembra che da sette anni stiamo combattendo una battaglia di civiltà pensando di dover difendere le spalle di un esercito che si riorganizza, e che questo nel frattempo si è messo comodo e si è dimenticato che il nemico preme alle porte o peggio che qualche consigliere fraudolento abbia indicato i migliori paladini non per difendere le spalle del re ma per perderli mentre i cortigiani continuano imperterriti a tessere trame di potere.

Visto dall’angolo visuale delle relazioni con le nuove generazioni il nostro modello sociale è già morto per alcuni buoni motivi:

a) il tasso di natalità è calato al minimo mondiale, segno di stanchezza rispetto ad una organizzazione sociale incapace di valorizzare la cura e le nuove generazioni
b) l’istruzione tecnica, scientifica e professionale, che rappresenta il principale investimento di un paese industriale è in ritirata ad ogni livello, da quello universitario a quello della prima formazione professionale
c) il tasso di insuccesso formativo, ossia la mancata utilizzazione della cultura e della conoscenza per modificare la propria condizione presente, è paurosamente alto se si includono anche persone con alto livello di istruzione che non riescono a prendere una strada. L’assenza di convinzioni e di iniziativa sembra molto diffusa. Capita non solo di incontrare gente che a cinquant’anni non sa cosa farà da grande, ma non sono neppure certi di voler diventare grandi. Ci sono intere categorie professionali per le quali a quarant’anni si è appena agli inizi. Siamo in una società vecchia per anagrafe, stantia per capacità di iniziativa. Se consideriamo dispersione non solo il mancato accesso agli strumenti di base della conoscenza e della cultura ma anche l’incapacità ad usarli da parte di quelli che li posseggono, allora ci troviamo di fronte ad un fallimento su vasta scala.
d) A ogni livello gli adulti incaricati della cura educativa, sia nel privato delle famiglie, sia nelle strutture sociali quali le scuole e i luoghi della formazione non sembrano volersi spendere nel compito, non sembrano avere particolari significati da proporre. C’è un senso di resa e di disfatta che in modi diversi percorre il rapporto tra vecchie e nuove generazioni dal nord al sud dell’Italia, dalle zone ricche a quelle povere, come se il singolo nulla potesse di fronte ai grandi movimenti dell’economia, della società, della politica, delle comunicazioni.

Con queste premesse nel giro di pochi anni il nostro quadro di vita si troverà immerso in un processo di estinzione.

Questi sono fenomeni profondi che vengono da lontano e dal profondo del nostro modo di vita e non dipende solo da un governo o dagli ultimi due governi. Qui c’è la crisi di una antropologia, ossia di un modo di essere uomini. E’ il modello “mi spezzo ma non mi piego”. Nell’affrontare i nostri adolescenti insieme aggressivi e depressi ci troviamo sistematicamente a dover contrastare un modello educativo rigido, tanto diffuso quanto irriflesso, che riguarda insieme i contenuti disciplinari, i modi di organizzare il lavoro, il modo di tenere ‘la disciplina’. Il docente e l’uomo che abbiamo ereditato dalla tradizione propongono una cultura rigida, comportamenti rigidi, norme rigide. Quando i giovani non si piegano questi uomini tuti d’un poezzo, sanno rispondere solo con misure inutilmente repressive, e reiterazioni infinite della stessa dinamica. Quando per qualche motivo costoro devono rinunciare a questa rozza strategia, si arrendono senza condizioni ed assistono impotenti al progressivo degrado delle relazioni e del compito educativo e seguono, ad ondate come le ola dello stadio, le parole magiche che di volta in volta indicano le colpe della società: il consumismo, la televisione, i videogiochi, i telefonini, il computer, internet, le chat line, la droga……….l’aziendalismo.

Questa è l’ultima. Docenti ed educatori noti esperti di relazioni industriali e frequentatori dei consigli d’amministrazione, sanno tutto sulla cultura d’azienda e sul danno che essa provoca alla scuola e alle giovani generazioni. Non sanno e nessuno gli dice, che le culture d’azienda si sono spinte sulla via della flessibilità, dell’ascolto, della cura delle relazioni in una misura inimmaginabile per la maggior parte degli educatori. Non abbiamo una visione idillica delle condotte aziendali: si tratta di punte avanzate, si tratta di una flessibilità e creatività curata soprattutto tra i quadri e che magari pretende dai lavoratori una flessibilità unilaterale e di comodo; tuttavia è certo che il modello monolitico e di rigida gerarchia mostra un po’ ovunque segni di inadeguatezza di fronte alle complesse sfide del mondo contemporaneo. Persino tra i militari, tradizionale baluardo dell’uomo con la schiena diritta, si è fatta strada l’idea che la forza non è solo quella distruttiva e concentrata ma anche quella costruttiva e duratura e che è possibile avere le armi per costruire le condizioni di una convivenza e non solo per distruggere il nemico. Il fatto è che nelle culture professionali fortunatamente vige ancora il principio pragmatico dell’esperienza e dell’esperimento per cui le novità efficaci si diffondono mentre nella cultura dell’educazione si sente il peso e l’oppressione di ideologie che hanno ripetutamente e clamorosamente fallito ma che sono incapaci di prendere atto dei fallimenti.

Ma le ideologie proprio perché prodotto immateriale sono anche impermeabili alla pratica cosicché è ancora vero che qualcuno, come ai tempi di Galileo, non guarda nel cannocchiale, non studia il reale, perché non potrebbe vedere nulla che la sua ideologia non gli abbia già falsamente descritto.

Nella nostra realtà, come avevamo preannunciato, stiamo varando dei corsi di istruzione e formazione integrata, dove finalmente si ha la possibilità di ‘curvare’ la rigidità delle discipline e della scuola alle sollecitazioni del mondo delle professioni e della prassi ed andare incontro alle attese di ragazzi che rifiutano attivamente le stantie metodologie scolastiche. La normativa ha lasciato abbastanza margini per questa operazione e tuttavia nella testa di troppi docenti e formatori c’è sempre lo stesso modello scolastico e vengono riproposte fotocopie sbiadite della stessa istituzione scolastica: grande frammentazione delle discipline, orari farraginosi, nessuna considerazione per la persona dei giovani allievi, scarsa operatività, improvvisazione professionale relativamente al lavoro tutoriale ed in genere relativamente al supporto e all’accompagnamento necessario ai giovani nella fase di ingresso nei ruoli adulti.

C’è certamente una dimensione napoletana e meridionale in questa dinamica, ma mi risulta che certe rigidità esistono anche al centro e al nord anche se in una cornice di maggiore efficienza in genere. Tuttavia voglio richiamare la vostra attenzione sul fatto che in alcune regioni il problema dell’integrazione tra il sistema dell’istruzione e quello della formazione professionale, non è stato proprio posto e che semplicemente si è affidata alla formazione professionale l’attivazione di un secondo canale formativo. Dietro una scelta che ha apparenza di grande efficienza si nasconde una resa, quella della scuola che rinuncia di fatto alla propria peculiarità. Noi sappiamo troppo bene che i ragazzi che rifiutano la scuola hanno un destino ancora più duro di quelli che la subiscono e sappiamo che le metodologie scolastiche ben applicate sono le sole che danno la riflessività. E senza riflessività non si va da nessuna parte né nelle professioni né nella vita. Quando proponiamo una maggiore flessibilità nei percorsi, una maggiore curvatura pratica ed operativa non intendiamo la rinuncia alla riflessione ma un modo di costruire la riflessione che deve essere vicino al galileiano “provare e provare il contrario” che è la negazione delle pratiche di addestramento ripetitivo e senza concetto.

Nella nostra realtà noi consideriamo la categoria della sciatteria come quella più adeguata ad interpretare i comportamenti individuali e collettivi della cattiva scuola: una mancanza di motivazioni e di amor proprio che porta a realizzare ogni compito nel modo più sciatto possibile, manifestando in questo modo il profondo disinteresse per i giovani e per la loro crescita. Sotto questo aspetto molte scuole sono diventate una specie di re Creso alla rovescia: trasformano in merda tutto quello che toccano.

Il punto di unificazione tra le sciatterie e le false efficienze è la difesa corporativa delle categorie professionali: burocrazie, ideologie, assenza di coscienza e dignità professionale si unificano intorno ad un egualitarismo d’accatto che nulla a che vedere con la pari dignità delle persone, con la partecipazione e l’esercizio dei diritti, ed è strettamente correlata al mantenimento di privilegi di nicchia che caratterizzano il corpo dei faccendieri della scuola. Questo egualitarismo impedisce sistematicamente che le persone giuste vadano la posto giusto, impedisce la crescita professionale con folli rotazioni, impedisce la costituzione di staff competenti, impedisce di punire la cialtroneria e l’incompetenza, impedisce la trasparenza delle decisioni, impedisce di realizzare i diritti di partecipazione degli utenti giovani, e famiglie. In una sola parola la falsa eguaglianza impedisce la costituzione di una comunità educante in grado di riflettere su se stessa e di porsi come agente educativo nei confronti delle giovani generazioni.

In questi giorni stiamo sperimentando ancora una volta quanto sia importante costruire ‘il professionista riflessivo’ quale soggetto collettivo, attore consapevole di una relazione di cura significativa. Per professionista riflessivo intendiamo quel professionista in grado di ricostruire continuamente il proprio sapere professionale riflettendo sull’esperienza. E lo sviluppo del pensiero non è mai operazione solitaria, è sempre operazione sociale che coinvolge le relazioni e le emozioni di tutto il gruppo di lavoro. Cosi per poter cominciare il nostro lavoro noi dobbiamo innanzi tutto fondare una comunità, il luogo in cui si realizzano gli scambi significativi tra operatori e con i giovani con cui entriamo in relazione.

Sabato 12 novembre in una delle tante scuole di periferia in cui si consumano stancamente le ultime delle 40 ore settimanali imposte ai ragazzi dei professionali, un gruppo di 30 tra educatori e docenti discuteva di come affrontare il primo giorno di questa scuola diversa che sono i corsi integrati di istruzione e formazione, dopo che per un mese si sono officiati i primi rituali di avvicinamento e di contatto con i nuovi allievi. La cura che questi giovani operatori hanno posto nel preparare il loro primo giorno di scuola è in termini di ore lavorate - prima di avere un regolare contratto e quindi senza pagamento – di circa cento volte superore a quella dedicata da una scuola ordinaria. In termini di passione e di intelligenza il rapporto è incalcolabile.

Il valore degli allievi si stabilisce quindi in questo modo in dipendenza di quanto noi stessi investiamo nella relazione. Così fina dal primo giorno noi trasmettiamo agli allievi un senso di dignità e di profonda solidarietà. In questo modo il re Creso funziona nel verso giusto. Nessuno dei ragazzi che abbiamo incontrato, dopo averlo tratto dalla strada, dal rifiuto totale della scuola, dal risentimento verso gli adulti, ci ha detto di no. E sappiamo che sosterranno il percorso. Abbiamo un solo problema: riuscire ad incontrarli. Su centinaia di telefonate e di visite domiciliari, poche decine si presentano, molti altri sono praticamente irreperibili, al solo sentire parlare di scuola si nascondono. Abbiamo imparato le tecniche per non spaventarli, tuttavia dobbiamo riuscire ad avere almeno un contatto. Noi stiamo facendo in termini intellettuali e relazionali ciò che facevano gli operatori di strada con i bambini abbandonati del Brasile: lasciamo una ciotola di cibo davanti alla tana sperando che il suo ospite superi la diffidenza verso di noi e che si possa aprire al dialogo. Il nutrimento che noi offriamo è offrirci all’accompagnamento, all’amicizia pedagogica che lega l’allievo e il maestro.

Nel panorama di rovine che caratterizza gli interventi sociali ed educativi mal cominciati e peggio conclusi i giovani educatori con cui collaboriamo sono la nostra unica consolazione, e però dovreste sapere, a trent’anni, quali curricoli ricchi ed insieme disastrati hanno, dovreste sapere di come siano i sopravvissuti di un modo selvaggio di introdurre le persone alla professione educativa e di come straordinariamente abbiano saputo conservare la propria umanità a dispetto della sciatteria istituzionale. E dovete anche sapere che questi trenta rappresentano una minoranza infima rispetto alle migliaia che avrebbero potuto essere impiegate nella regione Campania e che sono stati sostituiti da improvvisati educatori, o da giovani disoccupati e dequalificati disponibili a qualsiasi impiego. L’impressione che abbiamo è che le professioni sociali ed educative siano lasciate a nobili persone non perchè si creda alla importanza di questo lavoro, ma per approfittare dello spirito di responsabilità e di dedizione di queste

Ritorno a Roncisvalle e alle Termopili: stiamo in uno stretto passaggio che abbiamo scelto e fortificato a nostre spese e siamo decisi a difenderlo e facciamo sentire lontano il corno che annuncia l’infuriare della battaglia. Staremo a vedere se qualcuno vorrà almeno cogliere i frutti del nostro lavoro. Per quel che ci riguarda siamo convinti che dobbiamo fare la nostra parte in modo preciso e determinato tanto più quanto più siamo convinti che saremo sconfitti non sul campo ma nel palazzo che ci ospita perchè a ben vedere non ha alcun interesse in quello che stiamo facendo. Solo alla fine sapremo se la nostra battaglia di retroguardia sarà servita a preparare il grosso dell’esercito o se si sarà trattato dell’avventura quasi romantica del primo paladino tra intrighi, agguati e tradimenti. Speriamo che almeno ci sia un teatro dei pupi a raccontare l’avventura.

Gli inoccupabili

Da sei anni stiamo seguendo giovani che hanno lasciato la scuola con un intervento che inizialmente sembrava di semplice recupero scolastico mai poi è diventata una esperienza di recupero umano molto più complessa. Stiamo toccando con mano cosa accade ad un giovane che non va a scuola quando va avanti negli anni senza crescere.

Quando i ragazzi , dopo un lungo processo di avvicinamento e di accettazione, cominciano le attività del progetto Chance, la prima caratteristica che balza evidente è la loro incapacità di contenerere le emozioni: basta un nonnulla per farli scattare, reagiscono in modo esagerato ed aggressivo ad ogni contrarietà. Anche i normali adolescenti hanno una certa reattività, ma questi sono caratteristici per l’incontinenza senza freni. Noi diciamo che non ci sono spazi interni adeguati a contenere le emozioni, il nostro lavoro consiste nel cercare di costituire un contenitore esterno che in qualche modo aiuti a costruire quello interno. Generalmente questa è la funzione di un ambiente familiare sufficientemente buono. L’ambiente scolastico in genere utilizza questa capacità di contenimento costruita dalla famiglia per sviluppare l’istruzione . La scuola non si accorge che la disponibilità a lasciarsi istruire è costruita e la considera un dato naturale; quando questa condiziona non si verifica la scuola non ha i mezzi per trovare la strada per vicariare funzioni assenti e si innesca la spirale di reciproca ripulsa tra scuola e giovani. Il giovane che resta fuori della scuola perché insufficientemente sostenuto da una esperienza familiare positiva è contemporaneamente incontinente ed inappetente: vuole tutto, espelle tutto, non trattiene nulla, non ambisce a nulla. In questo modo rinuncia – lui e la famiglia - ad avere un progetto di vita e resta in balia degli eventi.

Questo ha conseguenze molto gravi anche sulla occupabilità: non conoscere e riconoscere regole, non stabilire relazioni costruttive, reagire in modo esagerato costituiscono altrettanti ostacoli seri a svolgere un qualsiasi attività lavorativa anche la più dequalificata. Il giovane tende a cercare un lavoro omogeneo col suo comportamento: precarietà, instabilità, relazioni aggressive, inaffidabilità ed incostanza. Da un certo punto in poi non si capisce se è il lavoro precario, nero ed illegale ad essersi organizzato per poter sfruttare una siffatta manodopera o se questa manodopera si adatta ad una organizzazione del lavoro primitiva e vicina allo schiavismo. Sta di fatto che sembrano perfettamente adattati l’uno all’altro: i datori di lavoro si permettono qualsiasi arbitri, qualsiasi illegalità; i giovani dipendenti fanno altrettanto: non rispettano gli orari, si ‘licenziano’ quando gli pare, non rispettano alcuna gerarchia se non quella della imposizione violenta, sono aggressivi e reattivi oltre ogni misura.

Il lavoro in giovane età, per quanto condannabile per la forma illegale e precaria, ha avuto in passato comunque il merito di realizzare una prima socializzazione al lavoro, l’apprendimento di regole minime quali il rispetto degli orari, della parola data, degli impegni presi, il rispetto delle regole del mestiere, che poi potevano tornare utili nell’apprendere lavori più complessi e più qualificati. Forse un po’ di esperienza sotto un padre-padrone non era del tutto negativa perché rappresentava un costo da pagare per entrare nel mondo del lavoro in cui il padrone irregolare rappresentava l’eccezione di una regola e non il primo avamposto della sregolatezza. L’apprendistato al d fuori di ogni regola e di ogni progetto educativo può solo insegnare la riproduzione del degrado ed apre la strada che porta dal crimine subito al crimine agito Ciò che noi vediamo è che tra lavoro irregolare e nero e lavoro regolare si è creata una tale distanza in termini di condizioni salariali e normative che non appartengono più alla stessa specie così come finiscono per appartenere a due specie diverse gli uomini che si aggirano nei due sistemi: sono due antropologie diverse tendenzialmente inconciliabili.

Cosa fare. Dopo la licenza media noi abbiamo capito che questi ragazzi non possono rientrare in alcun circuito ordinario non certo per capacità cognitive, o per scarse conoscenze di base, ma essenzialmente perché gli manca il tipo di socializzazione necessario. Negli anni quindi abbiamo elaborato un sistema di accompagnamento che è un vero e proprio apprendistato della vita che consiste nel sostenere i nostri allievi in tutti quegli atti conoscitivi che aprendo mondi nuovi suscitano emozioni e paure paralizzanti, una reattività espulsiva che impedisce il vero apprendimento. Così facendo siamo arrivati ad accompagnare i nostri giovani fino alle soglie del lavoro, e qui abbiamo scoperto che pur in presenza di qualifiche professionali si rischiava di rifluire nel marasma del degrado. Nostri ragazzi che sono emigrati in ambenti in cui il rispetto delle regole prevale sull’anarchia dello sfruttamento selvaggio si sono perfettamente inseriti, molti di quelli restati a Napoli hanno appeso il titolo al chiodo e sono tornati ai lavori precari offerti dal cognato, dallo zio, dal compagno di papà, dagli amici che sanno dove c’è il guadagno facile. Qualcuno il titolo non è neppure andato ritirarlo.

A volte ho un sogno ed immagino che tutti ragazzi di Napoli possano arrivare a 18 anni senza subire il lavoro nero e quasi schiavistico e che ognuno di loro possa sperimentare almeno per sei mesi come funziona un lavoro vero ed un lavoro regolare. Così, senza impegno e senza assunzione, una sorta di tirocinio al mondo ordinato, giusto per fargli vedere che esiste e che funziona, e che poi sia anche lasciato a se stesso, a subire tutto quanto questa nostra degradata realtà gli offre. Forse potrebbe trovare la forza ogni tanto di opporsi a tutto questo. Un mondo adulto che voglia meritarsi rispetto dai giovani dovrebbe almeno fare questo. Chissà!

La possibilità di desiderare

Troppe perone di culture e troppi educatori ripetono la stanca litania che la criminalità c’è perché ci sono molti soldi, come se l’uomo vivesse di solo pane. Molti si arrendono senza combattere al potere del sedicente dio danaro e rinunciano a vedere che dietro l’oro ci sono gravi rinunce, pericoli incombenti. Cinzia ha solo venti anni e 6 tentati omicidi subiti, vuole cambiare vita con la scuola, vorrebbe aiutare i più giovani a non fare i suoi errori. In questa intervista rilasciata ai giovani allievi di una scuola di Scampia venuti a trovare i compagni di un’altra periferia, fa un ‘bilancio di competenze’ in cu accanto ai troppi danari mette il pericolo di morte, l’angoscia quotidiana e soprattutto l’impossibilità di desiderare e di conquistarsi le cose. Testi come questi dovrebbero costituire il nucleo forte di una ideale antologia per le scuole delle ‘zone di guerra’.

Cinzia - Sono entrata a gennaio in un mondo che era diverso da quello che vivevo. Togliendomi da questo ambiente, pure io prima vivevo qua, sono entrata in un ambiente più calmo è come prendere un uccello in libertà e metterlo in una gabbia. I primi mesi andavo a spasso con mia mamma andavo, scendevo, volevo la scarpa e mi prendeva le scarpe quello che aveva mi dava …mi faceva del male come papà volevo il motorino e mi accattava il motorino.

Ciro: Cosa ti mancava?

Cinzia - Niente perché io volevo la scarpa firmata , i capelli in un modo. Mi svegliavo che la mattina avevo ‘ncoppa al (sul) comodino 7 euro, passava papà che me ne metteva altri sette. Non capivo il valore dei soldi. non capivo perché non lavoravo io avevo il soldo facile. Mi trovai in un cielo che mi faceva vedere un mondo tutto loro.

Ma voglio la scarpa cosa me ne faccio della scarpa prendetevi il diploma questa è una scuola che se vuoi prenderti il diploma ce la fai con il poco. Magari dici sta mattina mi fa male la capa.

Ciro: Quale specializzazione stai facendo?

Nell’arte bianca perché è un settore che per me è utile. Posso lavorare in qualche pasticceria e il nostro corso ci da un riconoscimento europeo in più rispetto al corso normale. La cosa bella è che dal primo anno facciamo i laboratori.

Intervista a Cinzia - per noi tramite Alessia

“La mia esperienza è stata un po’così…non ho avuto molte esperienze con la scuola. Il primo giorno delle superiori tenevo 15 anni, mo ce ne ho 20.

Il primo anno è andato tutto bene, il secondo anno lo feci a metà, da settembre a gennaio, dopo di che mi allontanai da scuola per delle amicizie che avevo…mi portavano ad non entrare a scuola…mi portavano a ballare il sabato…mi facevano vedere un mondo tutto diverso da come è la realtà. Andando avanti con queste marachelle che facevamo di mattina, altre le facevamo di notte…un giorno tirava l’altro e mi tolse la scuola. Non volevo sapere niente della scuola, mi piaceva stare sempre per strada e fare marachelle. Potevo arrivare ad una vita da criminale.

Cosa ti attirava di questa vita?

“La cosa che mi attraeva di più è che se tu prendi un bambino e gli fai vedere i soldi facili, te lo attiri a te, all’inizio un bambino non capisce perché vede i soldi. Se il papà da le 100 mila lire e te le mette nella sacca, chi te le da? Da una fermata all’altra di pullman puoi guadagnare 300 mila lire. Chi te lo fa di andare a scuola? Io a scuola mi faccio un cammino sano. I miei cugini stavano passando dalle medie alle superiori e mi dicevano: “ tu non sei stata in grado di seguire la scuola, un domani cosa trovi? “. Sono ritornata a scuola…nell’ambito scolastico…lasciando il motorino e le marachelle mi è servito a capire che comunque la scuola ti serve. Ho capito che il mondo della strada non è il mondo che realmente c’è. Ho avuto 6 tentati omicidi, e non sono pochi, se tu vai a scuola ti porta ad una vita serena, una vita che non hai problemi a come andare a dormire la sera, vai tranquillo, cammini per la strada libera di ogni cosa e di posto.

No che tu cammini e devi dire: “no qui non si può andare”. Invece la vita quando uno sceglie, perché è una scelta di vita, capisci quello che fai. Tu capisci sai quello che fai, uno a 16 anni può scegliere.

Ma è difficile?

Si, è difficile e facile. E’ difficile uscire dalla gabbia. È stato facile capire.

Ora ti faccio vedere quest’altra vita, tu ti sei reso conto di quello che c’è.

Ma anche prima era una gabbia se avevi paura?

Si, due tipi di gabbia. Prima era un’altra gabbia che non potevi scendere(uscire di casa), Con quale paura con quale rischio scendevi (uscivi di casa)?

Oggi il 90% dei ragazzi sta tutto per strada, diciamo, se vedi un ragazzo ha proprio un atteggiamento mafioso…cioè molti ragazzi oggi…la cosa che gli voglio dire…che devono tornare tra i banchi di scuola. La scuola fa capire tante cose, ti porta ad un futuro, con un diploma non si fa niente, tra i banchi di scuola dici: “ ma che bo’ chesta?” (ma che vuole questa prof?). Per una parte hanno ragione, ma è meglio tornare.

E dopo la scuola?

Dopo la scuola ho intenzione di andarmene fuori, di fuggirmene dal contesto, Napoli è una bella città però a confronto del nord …sono emancipati…di mettermi a lavorare, un lavoro serio, efficace ed onesto. Chi vive di onestà vive di più.

Sei stata al nord qualche volta?

Sono stata in Liguria, in Germania, ora ci voglio andare perché voglio cambiare vita, voglio finire di cambiare vita.

Si può cambiare stando qui?

Si, però io voglio girare il mondo, mi voglio emancipare, voglio conoscere altri ambienti, voglio vedere le idee che hanno gli altri, scambiare le mie idee con loro, infatti io ringrazio le persone che mi sono state vicine. Perdo la mia città. Io ho intenzione di andarmene fuori per 5 6 anni e scendere (tornare) a Napoli con una attività con i ragazzi, prendermeli a lavorare con me per capire la vita.

Cosa hai pensato quando hai visto i nostri ragazzi oggi?

Il primo impatto mi sono sembrati dei fanciulli che vanno più per le cose negative però poi infondo vedevo me quando avevo la loro età, vedevo la mia personalità. Mi ha fatto piacere parlargli perché se potessi fare qualcosa per loro è sicuramente inculcargli che devono andare a scuola.

Le scuole come le vedi?

Prima le vedevo come loro…un luogo dove ti mettono solo là come un carcere, ora le vedo come base principale che ti fa aprire la mente.

Come la vorresti una scuola immaginaria?

Se potessi fare una scuola mia: Corsi OFIS

Se prendo un ragazzo turbolento magari ci metto un professore più turbolento del ragazzo e non una che non ha la forza di combatterlo, perchè ci faccio più male che bene. Ci devo mettere un professore che lo inculca, una cosa che lo attira. Che lo sa capire, che non è “giudichevole”, che non dica: “ah tu hai fatto una vita in mezzo alla via” (vita ‘miez ‘a via =camorra) , che non ha la superbia, un professore che si mimetizza con i problemi del ragazzo. Un amico non un professore, così il ragazzo ha più voglia di andare.

Io ho una persona che mi sta veramente vicino ed è mio zio che mi ha fatto capire tante cose nel contesto in cui mi trovo, mi sta vicino. Io sto con uno zio che ho visto quando avevo 3 anni e ora che ne ho 20, non mi sapeva, se non solo che ero una criminale. Ora sto in questo quartiere nuovo, dove le persone hanno paura della propria ombra e loro mi hanno accolta; lui mi ha preso e mi ha detto: “guarda”. Anche se il curriculum che avevo non era bello, mi poteva capitare il peggio anche se sono sua nipote, poteva fregarsene, chissà che reazione poteva avere?...e invece no mi ha presa, ha sempre lasciato soldi dappertutto…si è fidato. So che quello che mi dà se l’è faticato con tre notti di lavoro al ristorante. Mi ha sempre trattata come una figlia, parlando. Anche alle mie cugine dice:”ragazze voletevi bene”.

Per strada vedo tutto. Vedo drogati, quelli là che si vanno a vendere il fumo.

Ma non pensi che ci siano anche al nord queste situazioni?

Si, saranno più emancipati, si baceranno pure per strada, ma non si vede quello che si vede qua. Al nord per esempio la criminalità sta nascosta, qua si vede.

Ma anche a Milano ci sono i quartieri popolari disagiati.

Si diciamo che la criminalità sta dappertutto. Ma di più nei popolari. Ma se devo mandare mio figlio giù (fuori di casa), posso mai stare con la paura che non torna?

La criminalità qui la vedo anche quando attraverso la strada e mi possono tirare sotto. Al nord non si sentono mai omicidi in piazza con la folla vagante di gente. È un rione popolato, e non si vede una volta, ma tutti i giorni, i morti li fanno come per gioco. Come io non accetto magari che crollano le torri gemelle o il terremoto in Asia che poi vengono da noi a chiederci il messaggino (l’SMS del cellulare) di 1 euro e poi ad un giocatore di pallone gli danno i miliardi e poi ci chiedono l’euro a noi? È una scemità. Secondo me ci mangiano pure nel contesto della Regione, del Parlamento e del Governo. E’ tutto un giro. Bisogna dare lavoro ai giovani e non ai vecchi di ottant’anni per i voti. Cercano solo i voti. Anche le guardie sono corrotte, se passano con il rosso sono loro che per primi non rispettano la legge.

Che rapporto hai con i soldi?

Prima non capivo cosa era la moneta non capivo il valore: ne lasciavo dentro la tasca 20 e quando mi svegliavo ne trovavo 60 e cosi via. Invece ora capisco il loro valore, che bisogna faticare. Ci penso prima di comprarmi le cose. Prima compravo tutte le firme e i capelli me li andavo a fare (andavo dal parrucchiere) di sabato. Ora invece scelgo anche altri giorni (quando si paga di meno) e non sempre riesco. Sto attenta a quello che spendo. Una cosa importante ora è qualcosa di intimo che rimane. Lo sfizio me lo faccio pure passare, ma non come prima. Ero una viziata unica. Genitore non è dare il piatto ‘ncoppa alla tavola (sul tavolo); non è così che gli vuoi bene ma deve dimostrarlo l’affetto, non sono i baci che fanno il bene. Ti devono far capire. Voler bene non è mettere i soldi nella sacca (tasca), ma parlare, farlo ragionare ed entrare nelle problematiche dei propri figli, dire: “aspetta a mamma, a papà, che stai facendo? Questa non è la strada?”. Io a mio figlio non darei, per fargli fare il bravo, le dieci mila lire, …… per comprare il motorino fare dei sacrifici e diventa più bello se è desiderato. Non che: “papà voglio il motorino” e lui ti dice: ”si, a papà, aspetta che mo’ vendo due plance di fumo e lo compriamo”. Questo è il problema.

Oggi se un ragazzo si sposa viziato la moglie, ti manda all’altro mondo.

E il rapporto tra compagni di scuola come lo vivi?

A volte il compagno ti può dare un qualcosa che non hai avuto…una mano…di chiamarlo se hai un problema. Come faccio io quando vedo chi è in difficoltà. Alcune volte dico di venire con me e vedere il mondo reale perché quello fa schifo.

Qual è il mondo reale?

Il mondo reale è il mondo in cui viviamo, non è il mondo che ci fanno vedere loro. Il mondo reale è il mondo che non ha rabbia, uno non scende con la rabbia dentro.

Non pensi che la rabbia sia un sentimento reale che fa comunque parte della vita?

Si, il mondo reale è una dualità. Quello che vediamo e che dobbiamo accettare. C’è il male e il bene. Solo che il primo vince. La realtà è far salire la cosa positiva.

Casa vuoi dire alla classe del progetto di Scampia?

Devono studiare con il cuore e non darsi alla strada. Vedere, andare girando e non fermarsi solo alle cose negative. La scarpa ce l’ho oggi al piede…e per una firmata non posso farmi due anni di galera. Accontentarsi di quello che si ha. Desiderare..piano piano e non subito le cose. Tornare tra i banchi di scuola.

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