La rappresentazione che trasforma

Kykéion - Semestrale di idee in discussione, N°3 Maggio 2000


Riflessioni, discussioni e racconti sul progetto Chance:

di Cesare Moreno e Clelia Bartoli (revisione del 22 luglio 2000)

Prologo

Mentre stavo lavorando alla redazione del presente numero di Kykéion, dedicato al rapporto tra teoria e pratica, ho scoperto, tramite una rivista, dell’esistenza a Napoli di una scuola singolare: la giornalista scriveva che si trattava di un “progetto per il recupero dei ragazzi che a scuola non ci vanno più, che non ci vogliono andare e non sanno cosa farsene dell’istruzione, essendo già molto istruiti su quel che gli serve nel quartiere e nella vita, che con ogni probabilità per loro è già scritta”.
La dialettica teoria-pratica mi è sembrata in quel progetto perentoriamente presente, domande in merito a cosa farsene della cultura, a quale possa essere il senso dell’istruzione, al tipo di responsabilità che comporta essere depositari di teoria, potevano trovare forse solo in un simile contesto le risposte più legittime. Decisi così di prendere contatti per una visita a Napoli e per un’intervista ad uno dei coordinatori del progetto, Cesare Moreno.
Devo ammettere che quanto ho scoperto non corrispondeva a ciò che credevo di trovare, tuttavia è veramente piacevole essere contraddetti quando la realtà supera le aspettative: immaginavo infatti gli operatori del progetto Chance alla maniera dei filosofi dell’undicesima glossa a Feuerbach, i quali, non paghi del loro scranno teoretico, desiderano scendere predicanti tra la folla, come solerti missionari dall’indole benefattrice e colonizzante.
Mi ha stupito invece come il rapporto tra teoria e pratica sia stato interpretato in direzione inversa: non quindi nel senso di una generosa teoria che dona i suoi tesori al mondo della prassi, ma prevalentemente come il germogliare della teoria dalla pratica, lo scaturire della sapienza dall’esperienza. Significativa, al riguardo, è la prima cosa che il coordinatore mi ha risposto, quando per telefono gli proposi un’intervista sul suo lavoro, da pubblicare in una rivista di filosofia: “Sì, sono contento di contribuire, perché qui facciamo molte scoperte filosofiche!”
Durante la successiva discussione, Cesare Moreno mi ha spiegato che molti dei dilemmi sorti dalla sua frequentazione della cultura classica gli si erano chiariti grazie al coinvolgimento nelle esperienze di vita fatte e conosciute nei quartieri di Barra e San Giovanni: il mito, infatti, riportato alla tensione reale di cui è simbolo, libera la sua soluzione.
Ad esempio, diceva di essersi chiesto più volte come mai molti miti narrano che per riemergere da una prova estrema (uscire dagli inferi, sfuggire all’incendio di Gerico…. ) occorre procedere senza guardarsi indietro, e che l’infrazione del precetto comporta il venir trasformati in statue; alla risposta pervenne constatando che, per molti ragazzi, contemplare il proprio passato, o il proprio contesto di provenienza, li irrigidiva in una condizione dalla quale sembrava loro di non poter procedere; talvolta infatti, per riuscire a crescere e diventare altro da sé, soffermarsi troppo a considerare le proprie condizioni di partenza può risultare così deprimente da lasciare immobili come una statua.
Per capire il progetto Chance e le scoperte filosofiche che da questo sono scaturite seguiranno una breve scheda introduttiva, una lettera-saggio che esprime in tono informale le direttive e le ipotesi del progetto ed infine l’intervista a Cesare Moreno.(Clelia Bartoli)
Schizzo del progetto Chance:
Il progetto è nato da un’idea di Marco Rossi Doria e Angela Villani. Si tratta di un corso di recupero accelerato per ragazzi drop out che combina la formazione scolastica classica con una formazione pratica. Il progetto si svolge attraverso l’integrazione corresponsabile di diverse istituzioni e professioni (quali il provveditorato, l’università, la direzione didattica dei quartieri interessati, i campi sportivi, le associazioni di genitori, gli operatori e gli assistenti sociali).
La relazione umana con il ragazzo, considerato nella sua singolarità ed irripetibilità, è il centro motore di ogni altra azione educativa: dalla progettazione curricolare alle interazioni con il contesto scolastico ordinario, dalla ricerca scientifica all’organizzazione amministrativa. La cura per le relazioni umane ad ogni livello è il principale fattore di qualità e di successo del progetto.
Gli operatori più che essere insegnanti di una particolare disciplina sono specialisti dell’apprendimento, che accompagnano i ragazzi nelle loro esperienze formative. La loro efficacia pedagogica dipende da un costante aggiornamento dell’immagine che essi hanno dei ragazzi e di se stessi, negoziata con regolarità ad un tavolo di discussione e confronto.
La possibilità di realizzare il progetto in questo modo viene principalmente dal fatto che esiste per la prima volta in Italia una legge per la promozione dei Diritti e delle opportunità dell’infanzia e della adolescenza. È una novità che si è fatta strada a partire dalla carta dell’ONU del 1989, e che ha trovato solo nel 1997 la sua prima sanzione legislativa (legge 285) al di fuori delle logiche emergenziali (la precedente legge 216/91 operava ed opera in favore dei “minori a rischio di coinvolgimento nelle attività criminose”). Attraverso questa legge, le attività educative, che un tempo erano appannaggio esclusivo di operatori che agivano nelle comunità o nelle istituzioni totali, sono diventate aperte al territorio ed aperte tendenzialmente a tutti i ragazzi.


Lettera alla redazione


Userò, in questo mio intervento, una forma colloquiale perché penso sia la più adatta a cercare di comunicare il senso del nostro lavoro nel Progetto Chance, per il recupero di drop out della scuola media e avvio al completamento dell’obbligo scolastico e formativo.
Mi piace, che si riferisca di Chance in una rivista filosofica e che questa si chiami Kykéion: miscuglio, e guazzabuglio, ma anche, secondo il dizionario greco di Rocci, “sovvertimento”. Nel nostro progetto ci sono certamente tutti questi ingredienti e qualcosa in più.
I problemi filosofici che ci poniamo sono molti. Dopo pochi mesi dall’inizio ci stavamo chiedendo chi eravamo, dubitando non solo del significato dell’impresa educativa ma del senso stesso dell’umanità: ai miei colleghi, che mi chiedevano se erano ancora insegnanti o qualcos’altro, rispondevo che la domanda ultima era se aveva ancora senso la nostra cultura, il nostro essere uomini, se un numero così alto di giovani vite doveva essere condannato alla dannazione. Perché c’è una cosa che so prima di ogni teoria, che esistono destini di morte. Qualcuno mi ha già detto che sono esageratamente tragico, ma è il senso del tragico che mi muove e non intendo rinunciarvi: lavoro nel quartiere dove sono nato e cresciuto e dove sono ritornato per scelta dopo una breve parentesi di studente ‘fuorisede’. Drop out sono i miei vicini di casa, drop out sono da generazioni il contrabbandiere di benzina, poi quello di sigarette, poi lo spacciatore. Alcuni compagni di scuola dei miei figli sono ragazzi omicidi a quindici anni, bambini blindati per il fatto di appartenere a famiglie criminali. Miei allievi hanno la mente bloccata dalla mancanza di protezione e di sicurezza. Miei allievi, per infelici circostanze, non sono riusciti a tirarsi fuori dal dolore e hanno finito per cercare e darsi la morte. Mi sono dedicato in modo totale ad insegnare ai bambini più disgraziati usando la mia cultura, - la nostra cultura - per rinforzarli, per dar loro nuovi strumenti per educarsi, per tirarsi fuori dalla condizione esistente. Quando ho potuto farlo fino in fondo ho anche avuto un certo successo, ma ho costatato che in assenza di ulteriori interventi molte tragiche profezie si avveravano, soprattutto nel corso della scuola media.
Davanti a me avevo quindi due problemi: il primo, quello per cui ritengo ancora utile impegnarmi è quello di trasformare in un metodo riproducibile ciò che ho sperimentato personalmente; il secondo è quello di affrontare il problema dell’integrazione nella fase più difficile, quella adolescenziale, quando la frattura tra passato e presente, tra essere e dover essere ha radici nella vita biologica e nella cultura vissuta.
Qui segnalo un primo problema di autentica ricerca riguardante il modo concreto in cui si passa dai saperi formali alle discipline, dalla vita vissuta alla riflessione sull’esperienza.


DISCIPLINE, COMPETENZE, PROFESSIONE


Discipline, competenze, professionalità, vita reale costituiscono un campo di interazioni complesse dentro cui si muove l'azione educativa. Ogni cambiamento che riguardi uno dei termini influenza profondamente il campo. Nell'esperienza del progetto CHANCE, recupero di drop out della scuola media, ragazzi che vivono situazioni difficili e talora drammatiche, che hanno abbandonato la scuola e vivono per strada, sono richiamati a scuola, ma bisogna ricostituire le basi stesse del far scuola, il contenuto profondo della professione docente. In forma cronachistica riporto il modo in cui tutto ciò accade ed i problemi che pone, rimandando ad altre sedi una trattazione più sistematica.
Dopo poche settimane dall’inizio il gruppo docente dubitava di se stesso e si chiedeva chi fosse e dove andasse. Era ancora possibile insegnare qualcosa ai quindicenni? Le teorie pedagogiche note, cosa dicono in proposito?
La vulgata pedagogica afferma che lo svantaggio socio-educativo si combatte nella prima infanzia; centinaia di migliaia di insegnanti non hanno dubbi in proposito. Eppure messa da parte l'ovvia utilità di interventi precoci, si tratta di una pura e semplice sciocchezza che si iscrive in una idea di onnipotenza pedagogica e di linearità dello sviluppo umano che non hanno riscontro nel reale. L’onnipotenza pedagogica dice: date a noi ‘docenti’ i bambini il più presto possibile – ora qualcuno dice che anche l’asilo nido è una scuola – e noi ne faremo esseri perfettamente integrati in sé stessi e nella società. La linearità dice che una volta stabilite le condizioni iniziali il sistema uomo evolve secondo una traiettoria univoca;
Entrambe queste ipotesi sembrano false, e la crisi adolescenziale sta li a dimostrarlo. Le discontinuità nello sviluppo consistono proprio nella apertura di fronti di crisi che rimettono tutto in discussione. Certamente aver vissuto positivamente altri periodi di crisi, aver ricevuto aiuto e sostegno aiutano ad affrontare nuove crisi, ma la realtà resta drammatica. Sulla base di questa banale osservazione, noi potevamo ipotizzare che il momento di crisi adolescenziale, pur essendo durissimo era tuttavia un momento 'utile' proprio perché nello scenario dei destini lineari, delle predestinazioni sociali, si apriva una finestra di crisi. Viceversa una pedagogia lineare vede nei momenti di crisi non una possibile apertura ma solo confusione e sovversione, che mettono in discussione l'educabilità dei soggetti.
La confusione consiste innanzi tutto nel mancato rispetto delle delimitazioni tra i saperi e l’essere. La pedagogia lineare vive la situazione in questo modo: dopo tanta fatica pedagogica per liberare il bambino da fastidiose connotazioni emozionali e sentimentali, dopo aver conquistato le vette della razionalità, dopo aver disciplinato il corpo nei più diversi contenitori (l’aula, il banco, gli abiti giusti etc..), tutto viene rimesso in discussione a cominciare dalla propria identità. E chi dubita di sé dubita anche del’altro e mette questo in condizione di dubitare a sua volta di sé. I nostri adolescenti chiedono ‘e tu chi sei’ ossia quale legittimazione hai; e nessuna legittimazione sociale è sufficiente di fronte a chi nella società non c’è ancora entrato.
Di fronte alla umana miseria per cui nessuno di noi è perfetto, nessuno può proporsi come modello assoluto alle nuove generazioni, sono gli adolescenti stessi che costruiscono degli ‘ideali’ che usano come armi nei confronti degli adulti. Nei ragazzi di cui ci occupiamo il problema è molto più complicato: spesso manca nelle famiglie una figura adulta sufficientemente significativa con cui misurarsi; esiste un conflitto tra possibili ideali, quello di una società che vive ai margini o esclusa dalla legalità e quella di una società legale che non è sufficientemente accogliente, che non è abbastanza protettiva. Può capitare di sentire un ragazzo che dice: io la polizia la eliminerei proprio e l’altro che risponde “e poi ognuno fa quello che vuole”, e di rimando l’altro riferisce di illegalità perpetrate dalle forze dell’ordine. Sono domande che nella loro brutalità ripropongono interrogativi elementari e fondanti che nelle classi più colte e più protette neppure si pongono.
La domanda che veniva rivolta a Socrate, se si debba seguire la legge della vendetta o ricorrere al tribunale; la domanda ad Antigone, se sia lecito piangere i fratelli morti sui lati opposti delle mura; la domanda per Oreste a conclusione di un ciclo di vendette, sono domande vive ed autentiche, la cui risposta non sta scritta sulla carta ma nei rapporti reali tra le persone che vivono il territorio. L’oscillazione tra sovversione ed ordine che è propria dell’adolescente qui si pone non solo come conflitto interiore, ma come scelta tra "ordine sovvertito" ed ordine sociale della maggioranza, dove vince non chi ha più ragioni, ma chi sa gestire meglio sentimenti fondamentali come quelli di protezione e sicurezza.
Tra teoria e prassi il ruolo della cultura è che questa deve farei conti con le culture e per culture intendo semplicemente le vite vissute dalla gente nel proprio vivere individuale e sociale.
C'è un dibattito su competenze e conoscenze - le prime riferite alle prassi operative le seconde alle conoscenze concettuali - che nella nostra esperienza si arricchisce di un'ulteriore sfaccettatura. Il saper fare non chiama mai in causa solo una attività di trasformazione di oggetti, ma sempre anche trasformazione delle relazioni tra uomini, sempre anche sentimenti ed emozioni. Il saper fare che a noi interessa dunque fa sempre i conti con l’essere individuale e soprattutto con l’essere sociale che vive in un contesto territoriale, che agisce in un contesto produttivo. Tra teorie del contratto sociale e prassi del contratto sociale c’è di mezzo il fare i conti con i vissuti, i sentimenti, le emozioni di persone concrete in un momento in cui nulla è certo neppure l’identità interiore delle persone, neppure l’identità esteriore.
Tutto questo è più o meno vecchio quanto la scuola, la polemica contro la scuola distante dalla vita forse è nata ancora prima della scuola. Il nostro progetto ha la pretesa di affrontare questo problema in modo nuovo. Nel nostro progetto, così c’è scritto e così si cerca di praticare, il centro è costituito dalla relazione.
Ripetiamo: la relazione; la relazione significativa è il motore di ogni altra attività sia essa di insegnamento sia essa di riflessione teorica. La buona relazione non è un attributo ulteriore per un insegnamento ben accessoriato, ma il motore primo. Significa quindi che viene messa in gioco non la professione docente – allora avevano ragione quelli che dubitavano del proprio essere docenti – ma la propria capacità di relazione e – torna l’essere docente – ciò si realizza per mezzo della cultura. La cultura non è il deposito, magazzino di giacenze dell’umanità, ma il mezzo che il docente usa per accogliere, capire, elaborare l’esperienza ed i vissuti dell’altro. La cultura di cui noi parliamo è la cultura che opera, che entra nelle nostre vite come strumento di crescita.
Se la relazione è al centro significa che la scuola non è un luogo ‘riflesso’ ove arrivano le ombre della vita reale, ma un luogo ove si svolgono eventi reali anche se in situazione protetta. Significa che la scuola funziona come una comunità.
Qui è necessario un piccolo exursus sui corpi e sull’edilizia: la scuola che pone al centro l’insegnamento deve necessariamente ingessare i corpi, interrompere le comunicazioni orizzontali tra allievi, né più e ne meno che come il chirurgo isola il paziente dalla famiglia e lo anestetizza per poter esercitare la propria professione. Il modello della classe con i banchi allineati – i banchi pre-Montessori avevano bloccata anche la sedia rispetto al banco - con gli studenti che guardano i maestro e solo lui: i cubicoli-aula che si aprono sul corridoio tutto ciò configura la scuola in cui le relazioni devono restare rigorosamente fuori salvo ad avere vita sotterranea negli intervalli, nei cessi, nel cortile, ossia tutte le volte che i corpi riprendono un po’ di libertà. L’ordine della classe e della scuola, le demarcazioni forti tra interno ed esterno, tutto ciò configura un contratto formativo implicito che dice: làsciati alle spalle i vissuti, entra nella divisa e nella disciplina dello studente e potrai accedere al sapere. E se rompi con queste regole semplicemente si decreta la decadenza dallo status di studente.
Nel nostro progetto noi non ci proponiamo di abolire le “barriere artificiose tra scuola e vita” anzi ci proponiamo di erigerne di forti specie dove la vita è pericolosa e violenta, ma semplicemente ci proponiamo di costruire insieme agli allievi le condizioni per poter apprendere e ciò significa che il contratto formativo non è una premessa socialmente accettata e scontata, ma è una conquista di ogni giorno attraverso la cosiddetta negoziazione.
In pratica dietro questa semplice parola si nasconde una specie di quotidiana guerra guerreggiata che deve fare i conti con gli schizzamenti di ciascuno. ‘Schizzato’ è una parola in gergo che usano i ragazzi stessi per dire che stanno fuori di sé, che c’è qualcosa che li turba profondamente. Una lotta per farli entrare in classe, una per sedare le risse, una per impedire il fumo, una per ridurre le aggressioni etc..; Noi diciamo sinteticamente che occorre riaprire lo spazio della parola in una situazione in cui prevalgono gli agiti.
In questa fase viene messa a dura prova la capacità di accoglienza che in questo caso è soprattutto umana, capacità di resistenza agli attacchi e alle aggressioni, capacità di andare oltre la barriera dell’aggressività. Tutto questo ha uno spazio specifico che è la cosiddetta relazione tutoriale, in cui ciascun docente stabilisce una relazione preferenziale e complessiva con cinque allievi. Significa che per questi allievi è il riferimento a tutto campo.
In questa fase ci si conquista il diritto di parola e forse un po’ di spazio per la parola, ed è a partire da qui che può cominciare una complicata attività di mediazione culturale.
Con il termine mediazine intendiamo semplicemente il trovare il mezzo,il luogo, le occasioni per realizzare l’incontro tra la cultura letterata ed i vissuti dei nostri allievi. Il principale strumento di mediazione è per noi quello delle rappresentazioni.
Incominciamo da noi stessi: il team di lavoro si organizza e si struttura innanzi tutto costruendo una immagine condivisa di ciascun allievo. Questo punto è decisivo: la nostra unità operativa, la nostra struttura di cooperazione non è costruita a partire da un mansionario professionale, ma a partire da un processo di ricerca e di creazione che ha per oggetto la figura dell’allievo e la nostra capacità di ospitare in termini prima emozionali e poi razionali una sua rappresentazione condivisa. Noi svolgiamo un continuo lavoro di ricostruzione della rappresentazione dei nostri allievi, per adeguarla alle nuove esperienze, per registrare i momenti di crisi e di crescita. I protocolli di osservazione, realizzati in modi più o meno formalizzati, rappresentano una costante del nostro lavoro. Questo lavoro è la base per ogni costruzione, così come la prospezione geologica del terreno è la base per la costruzione di un edificio.
L’unità del gruppo che in tal modo si costruisce è anche il principale strumento di contenimento per i ragazzi. Anche in questo caso contenimento va inteso nel suo senso più elementare di recipiente che impedisce lo sparpagliarsi di un liquido.
Somiglia molto al confinamento del plasma: materia incandescente tenuta assieme senza toccarla da potenti campi magnetici, una contenitore fatto di forze invisibili ma concrete. La coesione del gruppo docente che si crea attraverso la costruzione delle rappresentazioni condivise istituisce il ‘docente collettivo’ una sorta di super-io in grado di contenere e portare a norma un insieme caotico, un miscuglio inestricabile.
Anche in questo caso tocchiamo una questione a lungo dibattuta: come costruire la cooperazione del gruppo docente. Nella terra del didattichese si parla di interdisciplinarità, transdisciplinarità, laboratori, cooperative learning etc.. La nostra risposta è chiara ed inequivocabile: la cooperazione si costruisce intorno all’uomo, il rispetto della cui integrità, vale tutte le interdisciplinarità messe assieme. Anche nel caso del team docente è tutto l’essere che viene coinvolto e non solo un lobo disciplinare del nostro cervello. Le nostre discussioni sulle rappresentazioni non sono affatto tranquille, spesso sono drammatiche, spesso su una sfumatura interpretativa rischiamo di giocarci se non la vita di una persona, certamente una sua "chance" importante. E’ un lavoro duro, difficile da reggere, che provoca continue rotture e ricuciture, che può anche produrre fenomeni di stanchezza e di rifiuto. E sotto questo aspetto il gruppo deve essere innanzi tutto contenitore di se stesso.
Le rappresentazioni costituiscono, a partire dal team docente, anche il principale modo per reinterpretare da parte dei ragazzi la propria esistenza, il proprio percorso di crescita: chiamiamo questo “restituzione dell’immagine” e potremmo dire costituzione di una memoria di sé e dell’altro. E questo è molto importante anche nella comunicazione con i genitori e con il territorio. Le stesse attività laboratoriali che in prima istanza sono soprattutto di tipo espressivo (inizialmente a basso contenuto professionale) costituiscono un modo di rappresentarsi e di presentarsi in pubblico che viene curato con grande attenzione.
Una buona rappresentazione di sé e dell’altro, la tenuta di questa, la condivisione sociale rappresentano momenti importanti per stabilire punti fermi in processi caotici e privi di punti di riferimento attendibili. Non a caso la prima forma di aggressività è quella linguistica, quella attraverso cui si costruisce una immagine dell’altro tale da giustificare l’aggressione e la violenza. L’associazione che si insinua prepotente è quella del lupo e dell’agnello: il lupo non poteva semplicemente mangiare l’agnello,ma aveva bisogno di una rappresentazione che ne legittimasse l’aggressione: "inquini la mia acqua." E poi di fronte alla falsità evidente: "ieri tuo padre sparlava di me". Ci sono rappresentazioni che preparano le aggressioni, le esclusioni, - altrui e proprie – ci sono rappresentazioni che preparano l’incontro, la collaborazione. La cultura alta consente di costruire scenari e rappresentazioni complesse che rendono possibile andare oltre la barriera dell’aggressività, che consentono di trovare a ciascuno collocazioni diverse in una storia comune.
Questa è infine la nostra ambizione strategica: che il gruppo umano raccolto nel progetto CHANCE sia un protagonista della propria storia e della storia del territorio, che essendo riconosciuto e riconoscendosi diventi parte di un processo storico di sviluppo umano che coinvolge, a cerchi sempre più larghi, tutti, dall’uomo locale fino all’uomo globale. Anche qui è necessario un rimescolamento importante perché gli infanti prendano la parola, perché la vita silenziosa sappia rappresentarsi e pretendere il posto di protagonista nella storia reale.
Intervista sul progetto Chance
In che modo è nato Chance, come siete passati dall’idea alla realizzazione del progetto?
L’idea è partita da Angela Villani e Marco Rossi Doria, l’una utilizzata come operatore di rete nel Provveditorato di Napoli, l’altro utilizzato nel progetto Maestri di Strada presso l’Associazione Quartieri Spagnoli. Loro sono partiti da una bozza di progetto che ricalcava una simile esperienza fatta a Torino, che si chiamava Provaci ancora Sam. Angela e Marco mi conoscevano perché avevo fatto parte di una commissione sull’intervento contro la dispersione scolastica, così mi hanno chiesto se volevo essere nella partita. Tutto ciò succedeva tra l’aprile e il maggio del ‘98.
Le linee generali erano state già tracciate, di queste una era che l’assunzione del coordinatore del progetto avvenisse per chiara fama: noi tre siamo stati chiamati per chiara fama e abbiamo avuto una delega da parte del provveditore a scegliere ciascuno sei persone di nostra fiducia con cui fare squadra. Questa mi è parsa un’idea forte e fondamentale perché ci ha consentito di costruire veramente un gruppo affiatato e ci impedisce di dire “è colpa del Provveditorato che ci ha mandato la gente sbagliata”. È un punto fondamentale da cui iniziare: cioè che ci siamo scelti da noi.
Mentre riguardo all’impianto pedagogico, per noi che ci occupavamo da tempo di questo genere di questioni era ormai abbastanza scontato scegliere di fare molte attività operative, di adottare una didattica breve e di avere una certa cura della relazione.
Ci sono alcune idee in questo progetto che io non avrei osato avere e a cui oggi forse sono ancora più affezionato degli autori (le idee come i figli sono più di chi li alleva che di chi le partorisce). La prima è quella del reclutamento dei docenti’per chiamata diretta di cui dirò in seguito. La seconda è quella della ‘paghetta’ che all’inizio abbiamo attuato solo perché era scritto nel progetto, ma poi i ragazzi ci hanno fatto scoprire che aveva un significato simbolico così elevato da doverla integrare a pieno titolo tra gli strumenti pedagogici.
Quale pensi sia stato il tuo personale contributo nell’orientare il progetto?
Mi attribuisco il merito di aver rimarcato la centralità della relazione che già aveva un posto importante nella stesura del progetto, ma soprattutto quello di aver richiesto precise condizioni per la sua effettiva presenza nel progetto.
Nel settembre del 1991 avevo avuto la ventura di presentare il Progetto Ragazzi Ancora, primo in Italia in ordine di tempo ad attivare gli interventi sui minori a rischio previsti dalla legge 216 promulgata nel luglio 1991. In quel progetto si prevedeva una intensa attività di sostegno psicologico ai docenti. L’intero progetto fu accettato, ma quella parte fu semplicemente cassata: la psicologia è un lusso da ricchi annoiati.
Poiché si trattava dello stesso committente, chiarii subito che non avrei partecipato al progetto se non si fosse garantita in modo pieno l’assistenza psicologica. Devo dire che non feci a tempo a finire il pensiero che i miei colleghi accettarono. Discutemmo poi su chi doveva aiutarci in questo e la nostra scelta, dopo la considerazione di numerose equipe e possibilità offerte dalla città, cadde sul Dipartimento di Neuroscienze del Secondo Policlinico - Unità di Psicologia Clinica, perché ritenevamo - e i fatti lo hanno confermato - che fosse in grado di coniugare rigore scientifico con impegno e responsabilità sul campo.
Quando siamo andati a fare il contratto abbiamo fatto presente che gli stavamo proponendo di collaborare ad un’impresa difficile, che assicuravamo lacrime e sangue, e che la conditio sine qua non era una totale responsabilizzazione nel progetto. Questo significava che noi non avremmo accettato un rapporto di prestazione d’opera in cui il progetto era nostro e loro ne eseguivano una parte. Se non si fossero sentiti responsabili quanto noi, non saremmo stati interessati alla loro collaborazione.
Tutto ciò lo dico perché è dall’epoca dell’infelice parto del progetto "Ragazzi Ancora” che sto ragionando sulla collaborazione interistituzionale e interprofessionale e perché questo è legato al tema generale del rapporto tra teorie e prassi, che dico volutamente al plurale perché esistono molte teorie e molte prassi.
Cosa intendi dire?
In sostanza, voglio dire che non è possibile creare un progetto che si occupi dell’uomo, cioè di una totalità complessa, senza che in qualche modo non si garantiscano le condizioni organizzative per cui quest’integrazione tra le teorie e pratiche sia possibile.
Generalmente tra le istituzioni o tra le professioni si instaura un rapporto reciprocamente strumentale in cui nessuno si assume fino in fondo la responsabilità, oppure si stabilisce un coordinamento tra istituzioni e professioni che è una specie di pace armata, una sorta di congresso di Yalta per spartirsi le anime umane: “dell’anima di Nicolino il 50% spetta me, il 30% a te…..”.
Il discorso della cultura condivisa, cioè quella che mira a costruire un’immagine condivisa del soggetto in esame è l’unico in cui l’unità delle diverse discipline non viene data a posteriori, ma a priori. E per poter affermare questo principio unanime occorre mettersi intorno allo stesso tavolo a parlare di Nicolino per poi scoprire di cosa ha bisogno Nicolino.
Come nasce allora una più autentica collaborazione, in cui chi è in gioco si assume la responsabilità di rischiare?
Deve esistere uno ed un solo tavolo di decisione dove non ci si ripartisca per differenze professionali. Al tavolo delle nostre riunioni c’è l’allenatore del calcio, le madri sociali, gli operatori, gli insegnanti e a volte anche gli ospiti come voi di Kykéion o come la giornalista Paola Tavella. Il modo in cui questi vari attori riescono a realizzare una vera integrazione è sentendosi coinvolti nell’impegno di costituire un’immagine condivisa delle persone o dei problemi in questione.
Mentre la cosa più disastrosa della separazione interistituzionale e della separazione delle professioni è che la differenza di rappresentazione è programmatica, si basa sulla differenza metodologica tra le discipline.. L’unificazione viene cercata a livello intellettuale nell’interdisciplinarità. Purtroppo però le discipline sono nate per spezzare l’oggetto, non per ricomporlo, è invece più naturale che la ricomposizione avvenga in base alla soggettività, alla relazione. La relazione da questo punto di vista deve essere il punto forte.
Incontrarsi ogni quindici giorni per coordinare le azioni, significa semplicemente spartirsi le zone di influenza: la questione è che, per avere a che fare con esseri umani, dobbiamo lavorare ogni giorno gomito a gomito. In questo senso noi stabiliamo prima che una relazione educativa una relazione di cura, o meglio consideriamo la relazione educativa come una dimensione centrale per la cura.
Questo è un altro dei miei temi di riflessione: l'educazione è certamente una funzione sociale, appartiene all'ambito della socializzazione secondaria come si dice, ma il suo statuto resta fortemente ancorato alla cura parentale, rappresenta una estensione sociale della cura parentale e non lo strumento di una missione civilizzatrice di una struttura sociale o peggio di una classe sociale.
Ciò riguarda anche il rapporto tra teoria-prassi, poiché le professionalità e le istituzioni sono espressioni di un assetto sociale storicamente determinato esistono e vivono in quanto sono separate. Ritrovare un rapporto con la prassi è quindi ritrovare l'origine umana delle tante prassi, ritornare all'origine comune. Il tentativo di integrazione, l'integrazione di teoria e prassi, centralità dell'uomo rispetto alle discipline, sono aspetti dello steso problema: senza la possibile unità tra teoria e prassi è definitivamente perduta, e con essa il senso umano dell'educazione.
La vostra abitudine di riprendere con la telecamera tutto quello che accade a scuola per poi costruirci un film documentario ha a che fare con il discorso di lavorare con le immagini e le rappresentazioni di sé?
Sì. Il film mostra il vero, ed è anche un grande falso, tuttavia contribuisce a creare un’immagine di se stessi positiva. Noi, che abbiamo lavorato nel caos per un intero anno, sappiamo che quei quindici minuti di film non possono rappresentare esattamente quello che è passato. Ma in mezzo a quel “guazzabuglio” qualcosa era messo in forma e cresceva, e rivederlo in forma filmata aiuta a costruirsi un’immagine interiore. Ciò è importante per i ragazzi e anche per gli operatori.
Se gli adulti aiutano i ragazzi a ricordarsi chi sono (perché si può dimenticare chi si è), ciò serve a ritornare su se stessi, alle proprie esperienze positive; ed è proprio così che si cresce. Ma molti bambini questo non ce l’hanno: non hanno chi li aiuta a costruirsi un’immagine positiva, non hanno chi li aiuta a conservare questa immagine e a ricordarsela, anzi spesso hanno qualcuno o qualcosa attorno che gli conferma solo un’immagine negativa.
Anche qui c'è un termine quasi filosofico, metacognizione, che serve ad indicare i ragionamenti 'meta' quelli che aiutano a capire come abbiamo realizzato qualcosa, a impadronirci della metodologia oltre che del contenuto. La costruzione di una identità, della memoria è in certo senso una attività metacognitiva, è un vedersi dal di fuori e non solo da di dentro. Quando rifletto su queste cose a me pare di riscoprire il significato di termini filosofici importanti, come metafisica, nella prassi quotidiana, e di riuscire a dare un senso operativo a idee che sembrano al colmo dell'astrazione.
Quindi il vostro percorso pedagogico consiste prima nel cercare di elaborare una rappresentazione collettiva del ragazzo e simultaneamente di voi stessi, per poi riproporla al ragazzo. Egli muterà per il fatto di doversi interfacciare con una mutata immagine di sé.
Sì è giusto. In un certo senso noi diciamo che l’abito può fare il monaco, che una buona rappresentazione esterna può diventare una buona rappresentazione interna. In questo continuo a ritenere che Vygotskji -psicologo e pedagogista russo che inizia negli anni venti -abbia detto le cose fondamentali verificando che la conoscenza procede dall’esterno verso l’interno e non il viceversa.
Bisogna precisare che non importa che l’immagine sia corretta, l’importante è che sia condivisa, perché nel momento in cui si confronta con la realtà e viene smentita, si può essere concordi nel volerla modificare e su dove farlo. È per questo motivo che consideriamo le nostre riunioni simultaneamente momenti di programmazione, di ricerca e di formazione. Si tratta di un’attività di formazione perché accompagna permanentemente la riflessione al lavoro, perché effettivamente insieme ai ragazzi, si formano sempre anche gli insegnanti.
Alle riunioni di Chance -come moderni aruspici - officiamo un esame delle interiora del nostro intimo, prima di partire per la nostra avventura educativa, solo se i sogni sono condivisi e sono latori di buone notizie partiamo.
La gestione delle emozioni e dei sentimenti è una cosa gravosa, perché conduce a delle scelte che sono sempre drammatiche, Ad esempio se un ragazzo porta in classe un coltello, bisogna decidere se si può continuare a farlo venire o se si deve mandarlo via, se rischiare i 30 ragazzi o rischiare lui.
Se lo caccio per lui sarà un altro fallimento, l’ennesimo disastro; mentre se lo tengo dentro certamente sto rischiando, ma è un rischio che poi gestisco io, se lo caccio invece no.
La dimensione accogliente della scuola è una dimensione fondamentale, ma è micidiale, perché può significare accogliere dei vissuti tragici.
Ciò significa che può capitarvi non di rado di sperimentare un senso di impotenza, ossia una mancata realizzazione del vostro progetto operativo, una non riuscita traduzione della teoria nella pratica; come gestite quest’impotenza?
Te la devi tenere! In realtà noi ce la gestiamo nel gruppo consolandoci a vicenda, condividendola. Abbiamo accettato di stabilire questa regola fondamentale: “nulla rimarrà impunito”, ciò significa che essere reattivi in modo immediato non paga, perché ti trovi soltanto di fronte ad una serie di “chi si tu?”, cioè "chi sei tu?" “da cosa sei legittimato? Con me non sei legittimato. Puoi dire quello che vuoi, tanto io non ti ascolto”.
A quel punto però, l’insegnante non può dire “quello è un ragazzo indisponente”, può dire che è stato indisponente ieri, l’altro ieri e pure oggi, ma si tratta di affermazioni determinate. Affermazioni generali non sono accettabili. Nell’essere umano c’è tutto: la positività, la negatività, l’aggressività. Così cerchiamo di reggere il primo urto. Non è sempre facile, può capitare di non riuscire, perché sono cose stressanti, com’è stressante un bambino che piange per ore e ore: puoi sopportare un rumore sconvolgente, ma non il pianto di un bambino, perché è proprio codificato per andare a evocare certe cose, non riesci a rimanere indifferente.
L’impotenza te la devi gestire essendo abbastanza forte da reggere un minuto in più del ragazzo, e il gruppo ti dà questa forza; un gruppo che continuamente ritorna a discutersi come facevano i pirati del Peloponneso. I pirati si raccontavano e dibattevano i loro sogni prima di partire per un impresa, e se i sogni non erano buoni rimanevano a casa.
Su cosa vi basate per decidere, considerando che un passo falso può far nascere forti sensi di colpa?
Concetti come “ridurre il danno” vengono da persone che lavorano con problemi estremi, per i quali non cercano la soluzione definitiva, ma una soluzione processuale e per certi versi procedurale. Ci si rifà al principio che “se si segue la procedura giusta certamente ci troveremo bene, anche se non sappiamo se le decisioni che prendiamo sono giuste o sbagliate”. La cosa importante è essere sicuri di aver messo in campo tutte le conoscenze e le competenze di cui in quel momento potevamo disporre. In maniera tale che quando scopro che una decisione presa è risultata sbagliata, posso sentirmi in colpa se e solo se mi accorgo di non aver seguito la procedura giusta, di aver trascurato deliberatamente cose che erano di mia conoscenza.
Tutto quello che ho a disposizione lo devo mettere in campo e metterlo bene per discuterne seriamente. Il problema del giusto e dell’ingiusto viene così spostato da ciò che è giusto o ingiusto in assoluto a quella che è la procedura corretta o scorretta. Con questo non voglio fare un discorso burocratico, ma desidero insistere sul fatto che l’uomo è fallibile e che nelle decisioni operative non si può lavorare in base alle idee o agli assiomi, ma solo scendendo nella prassi ed in questo caso l’unica cosa che posso fare è accertarmi che ho fatto tutti i passi giusti; poi può darsi che la soluzione non è quella giusta, ma io devo essere nella condizione di poter dire che: considerate le informazioni che avevo a disposizione, avrei fatto la stessa cosa.
Se la considero allo stato in cui sono oggi, in cui ho più elementi per decidere, ovviamente ne posso trarre considerazioni e scelte operative diverse, ma perché anch’io sono diverso.
In proposito vorrei segnalare che nelle procedure c'è anche un aspetto rituale da non trascurare, perché i rituali sono rassicuranti, perché consentono un certo livello di automatismo in una situazione altrimenti troppo fluida: Saint Exupery nel suo Piccolo Principe fa una affermazione sorprendente: "un rito è ciò che fa ogni giornata diversa dall'altra", ed è sorprendente se si pensa alla uniformità del rito, ma è il contrario se invece pensiamo a come esso serva a scandire il tempo e connotarlo, a sottometterlo alla nostra dimensione umana sottraendolo alla sconvolgente indeterminatezza cosmica.
Quindi tramite le attività educative e gli incontri di riflessione riuscite a mutare lo stato delle cose, non tanto imponendo una teoria alla pratica, ma lasciandovi gradualmente trasformare.
Il tipo di formazione che tendiamo a realizzare somiglia molto al tipo di formazione e ricerca che un tempo facevano alle Ferrovie o che oggi fanno anche nell’aviazione.
Nei vecchi archivi delle Ferrovie si trovano le cosiddette “istruzioni tecniche”, dove venivano riportate notizie del tipo “il 16 maggio del 1896 c’è stato lo “sviamento” di un carro merci nella stazione di Pignataro Maggiore, lo sviamento è accaduto perché…, ergo da adesso in poi i macchinisti devono fare attenzione a …”. Le istruzioni tecniche venivano redatte circa ogni quindici giorni ed erano basate principalmente sugli incidenti. Il loro scopo non era quello di trovare il colpevole dell’errore, ma di capire l’accaduto in modo tale da non commettere più il vecchio errore, ciò non toglie che ne sarebbero capitati degli altri, ma almeno uno era eliminato. Il nostro lavoro di apprendimento è dello stesso tipo e quindi va aggiornato continuamente, ogni quindici giorni come le istruzione tecniche.
Al telefono mi avevi detto che ti avrebbe fatto piacere comparire in una rivista di filosofia perché stavate facendo delle scoperte filosofiche, cosa intendevi?
Le scoperte non erano tanto teoriche sul rapporto tra teoria e prassi, ma pratiche: su come organizzare questo rapporto. Ad esempio, riguardo a come la pratica didattica quotidiana diventi motore per la riflessione didattico-metodologica, per la riflessione scientifica e anche per la produzione teorica.
Uno dei problemi principali che stiamo affrontando è quello di voler costruire un sapere pedagogico che non sia staccato dalla pratica dell’insegnamento; dal momento che in Italia abbiamo molta ricerca pedagogica - ma può dirsi autentica ricerca? - che è totalmente all’oscuro della prassi ordinaria e una prassi didattica senza teoria. Non esiste un percorso, un rapporto sistemico tra prassi educativa e riflessione teorica pedagogica. Mentre nel nostro progetto, questo è un punto cardine.
L’altro punto teorico sul quale personalmente sto riflettendo da quando ho messo piede nella scuola è la relazione tra i diversi modi di conoscere. Non mi riferisco al discorso sugli stili cognitivi, né quello sulle intelligenze multiple di Gardner, che è anche fondamentale. Ma ha a che fare con il rapporto tra la conoscenza sentimentale-emozionale o partecipata, cioè quella in cui non c’è una vera distinzione tra il soggetto e l’oggetto (quella dei mistici, dei bambini piccoli) e la conoscenza riflessa, in cui c’è una bella distanza tra il soggetto e l’oggetto. Il rapporto tra conoscenza partecipata e conoscenza riflessa rappresenta un problema di frontiera, sta in mezzo tra i diversi modi di conoscere, tra età diverse, ma anche a volte tra classi sociali.
Un’ipotesi di teoria dello sviluppo di stampo evolutivo sostiene che la conoscenza partecipata ce la lasciamo alle spalle perché è propria del bambino. Tutte queste cose sono già state affrontate nel dibattito filosofico, ad esempio da Hegel certamente in modo molto esplicito, ma si è rimasti legati a questa idea evoluzionista: dall’impurità alla purezza.
La conoscenza partecipata è una conoscenza impura, mentre “i concetti chiari e distinti” sono idee depurate. Tuttavia la conoscenza partecipata è come la gallina dalle uova d’oro che non va uccisa perché mi fornisce motivazione, adesione, entusiasmo, indispensabili per giungere alla conoscenza intellettuale. I due tipi di conoscenza sono comunque sempre compresenti, ad esempio adesso sto facendo un discorso puramente intellettuale o sto facendo un discorso ricco di connotazioni affettive? in realtà sto facendo molto di più il secondo che non il primo, ma sto utilizzando strumenti del primo, cioè concetti, terminologia tecnica. Quando nomino un concetto significa che sto entrando entro certi limiti freddi, ma poi li riscaldo continuamente, allora la dinamica tra il caldo e il freddo, tra la conoscenza emotiva e partecipata e quella non partecipata è una dinamica che va tenuta viva tutti i giorni e in tutti i momenti, non può essere lasciata indietro una volta per tutte. In definitiva, il lavoro del traghettamento e della traduzione da un contesto all’altro è il problema dell’educazione e dell’apprendimento.
Ma allora come avviene l’apprendimento?
Quello che va spiegato non è tanto l’apprendimento quanto il non apprendimento. L’apprendimento è un fatto naturale: non solo l’uomo, ma qualsiasi essere vivente apprende, pure l’ameba. Quello che si deve spiegare è come è possibile essere così abili da riuscire a rendere tanto difficoltoso, quasi impossibile l’apprendimento.
Uno dei principali motivi per cui la gente non apprende è che viene tagliato il canale comunicativo con le sue parti partecipative. Il che significa chiudere il canale comunicativo con le proprie radici, con la realtà sociale in cui si vive, ecco perché questa operazione è contemporaneamente un’operazione cognitiva, ma anche un’operazione sociale: la scuola nel territorio, la scuola dell’autonomia sono tutte cose che c’entrano in modo decisivo con questo: io non posso fare una scuola dove si accolgono i vissuti dei ragazzi se le direttive me le deve dare Roma, se non ho la possibilità di fare entrare in classe la signora Letizia. Quindi devo ammettere che i libri in cui si trova la conoscenza concettuale sono il punto di arrivo, non il punto di partenza. Gli insegnanti hanno invece in mente il contrario; l’università, l’accademia ti mette in testa il contrario, non che lo dicano esplicitamente, ma te lo trasmettono tutti i giorni con atti concreti.
Ma il problema non è partire da pagina tot del libro, quanto quello di partire dal numero civico 232 dove abita Nicolino, e dove lui ha la testa. Nicolino dove ha la testa, sui libri o a tutti i disastri che ha a casa tua?
La scoperta concettuale deve continuamente essere anche una scoperta organizzativa e di prassi.
E in che modo l’insegnante può agevolare o rendere possibile l’apprendimento?
La soluzione è nuovamente nella relazione.
A mio avviso la posizione dell’apprendere è rappresentata in un dipinto di Leonardo che è il primo in cui si vede una Madonna in cui il bambino sta attaccato al petto, ma, al posto di essere rivolto verso la madre, guarda la scena fuori. È una posizione che si assume verso gli otto mesi: a questa età il bambino diventa capace di distrarsi dal ciucciare per interessarsi a qualcos’altro. Questo diventa poi la posizione generale del bambino quando si rifugia nella madre davanti a qualcosa di sconosciuto, di pericoloso: mette la faccia sul petto e poi da quella posizione sicura guarda le cose che lo spaventano.
Il gioco che si fa con i bambini “babao settete” è basato su questo principio: il bambino gode ad avere paura perché subito dopo godrà ancora di più del rifugio. Questo è veramente un gioco dialettico, che si realizza attraverso un adattamento continuo tra l’adulto e il bambino: la circolarità mi consente di vivere la paura perché ho la certezza del rifugio.
Quindi se noi riuscissimo a mantenere questo tipo di dinamica senza sopprimere né l’uno né l’altro aspetto, il gioco sarebbe fatto. La depurazione dagli aspetti affettivi ed emozionali può avvenire perché io sono affettivamente ed emozionalmente protetto. In Chance si vuole realizzare un’operazione cognitiva e filosofica, per cui dal momento che non posso mettere da parte i vissuti e i sentimenti delle persone nei percorsi di apprendimento, devo garantire le condizioni sentimentali minime affinché Nicolino possa apprendere; e siccome le condizioni affettive necessarie non gli sono garantite dall’ambiente, né dalla famiglia, allora devo in qualche modo garantirgliele io.
Pertanto la depurazione dei concetti non può avvenire attraverso una soppressione dei sentimenti, ma grazie all’accoglienza e alla gestione positiva dei sentimenti, Chance è questo.

 
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