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Lingue native

 

"Colui che giunge annunciato dal rumore dei propri passi
morirà prima del tramonto"

Lingue armate e linguaggi dell’accoglienza

Intervento sulla rivista "Pedagogika"
a proposito della difficoltà dei docenti
a riferire le proprie esperienze in un modo che ne restituisca la ricchezza e complessità

25 settembre 2006

Sancho Panza e Don Chisciotte; Giorgio Agamben, nel suo "Infanzia e storia" usa questa metafora per indicare lo stato di "non parola" e lo stato di parlante. La questione nel caso del sapere sociale, psicologico e pedagogico, ha una sua singolarità paradossale: gli operatori del settore, che chiamo sinteticamente "operatori della conoscenza", non sono nella condizione culturale e sociale di Sancho, usano la parola come principale strumento professionale eppure sembrano incapaci di dare parola alla propria esperienza.

C’è una divisione sociale del lavoro di riflessione che vede da una parte un’accademia che o non fa esperienza o la fa a partire da propri interrogativi "donchisciotteschi" e dall’altra una massa indeterminata di operatori cui è negata la riflessività. Questa negazione è innanzi tutto impedimento ai legami orizzontali, ossia alle pratiche di conversazione che legano tra loro gli operatori sul campo e ciò avviene stigmatizzando il linguaggio di chi opera come non sufficientemente scientifico; stigmatizzando la narrazione come forma linguistica non sufficientemente depurata dalle affezioni personali, non adeguatamente generale: il pensiero che non sia sintetico – nel senso della sintesi hegeliana o marxiana – che non rappresenti un punto di vista che è generale, ma mai di ciascuno, non ha legittimità. La non legittimità del parlare degli operatori è poi rafforzata da modalità di decisione, di rappresentanza politica e sindacale che seguono gli stessi canoni: si monopolizza un diritto di rappresentanza che è direttamente proporzionale allo stato di minorità e di sudditanza che è indotto e coltivato in milioni di operatori.

Il senso di inadeguatezza rispetto all’accademia, alla politica, alla negoziazione sindacale, induce afasia, - sinonimo di infanzia - oppure un’ansia assimilatrice, un’identificazione con l’oppressore che porta ad imitare il suo linguaggio ed i suoi modi e a dimenticare la propria esperienza: per far passare l’esperienza nella cruna dell’ago accademico la si maciulla al punto che dall’altra parte non arriva il cammello ma i suoi hamburger, che - come è noto - sono eguali in qualsiasi macdonald del mondo.

Nei miei interventi formativi appena ho la possibilità di impiegare almeno sei ore, fornisco una breve introduzione, giusto per cominciare la discussione, e poi lavoro in cerchio facendo parlare tutti. Alla ripresa fornisco una ‘restituzione’ di quello che ho ascoltato e la discussione prosegue partendo dalla loro narrazione e non dalla mia. L’aspetto più singolare di questo lavoro è il cambiamento radicale nei comportamenti, quando si riesce a evitare la posizione frontale e a formare il cerchio: le persone che fino a quel punto vedevano solo il viso del relatore e le spalle del collega, vedono le facce dei colleghi, ascoltano la loro narrazione, sono incoraggiati a parlare. In un’occasione, per me memorabile, dove erano presenti operatori della formazione professionale con decenni di esperienza, chiesi i primi interventi a quelli che scherzosamente chiamai un vile meccanico e un’umile cuoca: la conseguenza fu di avere nel giro di poche ore un fiume in piena e cristallino di sapere vero a lungo scorso in un tunnel carsico.

Un sapere di tipo nuovo può venire solo da una comunità di tipo nuovo. La comunità scientifica esiste in quanto si riferisce a procedure di validazione del sapere di tipo argomentativo-dimostrativo, il vincolo che tiene uniti è di tipo impersonale. Questo è quanto viene dichiarato ed è quanto avviene in superficie, ma sappiamo che le carriere e le cooptazioni sono decise in base a obbligazioni di tipo molto personale, quasi feudali, quasi nepotistiche. Viceversa la comunità degli educatori non esiste perché non esistono i luoghi in cui si consumano i riti istitutivi della comunità. Ne risulta impedito lo sviluppo di una narrazione condivisa, impedito l’accumulo di storia e di memoria che consente processi di identità, bloccata la crescita di senso di appartenenza che impedisce l’alienazione in saperi stranieri e stranianti. La validazione del sapere professionale non è affidata alla disputa argomentativo-accademica, ma è fondata sulla condivisione della narrazione e della verifica sperimentale. Ciò che cerchiamo di fare nel nostro lavoro è mettere in contatto questo tipo di condivisione con i processi di astrazione. Ciò avviene in diversi momenti di discussione e adottando diversi stili comunicativi; con un’immagine etologica (il computer stava correggendo con "teologica" e mi rendo conto ora che teologia ed etologia sono in corrispondenza anagrammatica. Solo?) possiamo dire che alterniamo lo stile del predatore e quello della preda: il predatore è ‘sintetico’: punta all’obiettivo e attacca; la preda si guarda intorno, considera molte ipotesi, e si prepara a fuggire.

La questione quindi è di tipo pratico: occorre che le comunità educanti siano anche ‘praticanti’: che sia possibile istituire vincoli ed obbligazioni reciproche – cum-munus, l’obbligo reciproco rende comunità un aggregato informe – che rendono possibile la narrazione e la storia. Questa aggregazione può avvenire solo intorno alla missione degli educatori: quella di formare le nuove generazioni e di dare senso e significato all’apprendimento. Da questo punto di vista la comunità non è solo un mezzo, è un fine: è proporre ai giovani un patto educativo che sia fondato sulla condivisione e sulla reciproca responsabilità. Nella nostra pratica di recupero degli emarginati noi ci accorgiamo minuto per minuto che siamo credibili ed efficaci se, e solo se, riusciamo ad essere una comunità educante, un insieme di professionisti in grado di produrre un sapere condiviso.

Una delle cose più devastanti che – qualsiasi sia la targa politica del ministro di turno - realizza il nostro ministero; una delle cose più devastanti che realizzano le normative sulla gestione del personale e i sindacatini che vivacchiano nelle pieghe dei regolamenti, è la distruzione continua di storia, il reinventarsi ogni giorno qualcosa di nuovo senza neppure darsi cura di sgomberare le macerie del precedente. Il bisogno ossessivo di novità fa tutt’uno con l’assenza di storia e di riferimenti e ritengo di sapere che esiste un’attività consapevole - di chi detiene i piccoli poteri connessi alle gerarchie - finalizzata alla distruzione della storia e delle competenze. Chiunque difenda la propria storia; chiunque pretenda il rispetto della propria professionalità, nel lavoro quotidiano e non solo quando si negozia gli interessi, è bollato ed ostracizzato come pericoloso: i legami orizzontali confliggono con la fidelizzazione verticale. Un effetto pratico di tutto questo è il dominio degli incompetenti ( si tratta di una notazione di fatto e non di un dispregiativo): in un’amministrazione che ha il più alto numero di laureati competenti in specifici campi del sapere, il potere reale sta in mano a qualche ragioniere (con tutto il dovuto rispetto ad una funzione preziosa), le responsabilità vere sono in mano a personale di formazione giuridica e amministrativa, le funzioni tecniche hanno un ruolo puramente esornativo; gli uffici studio sono caratterizzati da precariato, genericità, astrattezza.

La domanda da porsi a questo punto, come sempre bisognerebbe fare quando una maggioranza di persone altrimenti attive e presenti si lascia sottomettere da una minoranza invadente, è: quale è il punto debole della maggioranza. Forse non siamo abbastanza capaci di apprendere dall’esperienza. Chi si occupa realmente di insegnamento e non si limita a fare il megafono delle dottrine accademiche, ha a che fare quotidianamente con l’apprendimento e con le ansie che questo genera in modo diretto ed indiretto.

L’apprendimento è connesso alla paura, all’ansia generata dall’avvicinarci a realtà sconosciute. La posizione originaria dell’apprendere è quella del bambino che aggrappato al corpo della madre guarda sottecchi le realtà che lo preoccupano: abbiamo bisogno di sostegni sicuri e di fiducia nelle relazioni per poter guardare lontano; guardiamo lontano, e pensiamo, per risolvere nella mente le difficoltà del reale. E’ connaturato alla conoscenza quindi avere degli apparati protettivi che ci garantiscono di non commettere errori fatali. Gli apparati accademici – apparati di pensiero e apparati di rituali e procedure – servono a proteggere chi si avventura in campi nuovi: gli apparti di note e di citazioni sono le trincee da cui si può avanzare. La comunità scientifica fornisce il suo sostegno solo a coloro che riconoscono il loro debito alla comunità stessa. Tutto questo non è condannabile, è anzi la condizione perché l’esperienza si trasformi in sapere istituito; sennonché c’è una scarsa consapevolezza del significato emotivo di regole e comportamenti e alla fine accade troppo spesso che i sistemi di difesa siano talmente ingombranti che non si riesce più a muovere un passo.

Nelle comunità professionali che operano nei contesti reali esistono meccanismi analoghi che sono essenzialmente le regole della professione, i codici deontologici impliciti o espliciti. Qui le esigenze di difesa sono ancora più potenti: chi opera in relazione a persone che non conoscono e non condividono il linguaggio e le regole delle professioni, è continuamente destabilizzato e ha bisogno di forti apparati di difesa, come un commando in missione in territori stranieri. E ne ha bisogno perché corre continuamente il rischio di lasciarsi sedurre, di trovarsi invischiato in una relazione non educativa ma regressiva: abbiamo imparato che educazione e seduzione sono in relazione tra loro, che occorre sé-durre per poter "e-ducere", ma bisogna stare attenti a non scambiare la seduzione per educazione pena lo svanire della nostra missione. Orfeo, cantando, attira Euridice fuori degli inferi, ma questa svanisce non appena si gira a guardarla, non appena cerca di dare corpo al proprio sogno. La relazione educativa è una relazione intensa, di amore, di sogno, ma è a termine, anzi la sua missione è proprio porre un termine al tempo dell’attesa e della preparazione. Chi è coinvolto professionalmente in un percorso educativo deve necessariamente immergersi in una relazione coinvolgente ed insieme sapersene difendere. Quando non si è consapevoli di questo, si sviluppano "paranoie professionali" che impediscono ai professionisti di realizzare la missione in nome della quale hanno eretto tante difese.

Quando la struttura di linguaggio propria di una professione diventa chiusa, criptica, iniziatica, ciò rappresenta sul piano linguistico la chiusura ad una relazione reale e feconda con le persone che devono fruire di un servizio.

La domanda che noi ci poniamo è se sia possibile lo sviluppo di una professionalità docente ed educativa se non si esce continuamente fuori dei confini protetti e sicuri; per poter stabilire una relazione occorre aprirsi, essere disponibili ad accogliere e farsi invadere dall’altro ed il più delle volte si tratta di invasioni emozionali devastanti, di dolore inespresso, di realtà incontenibili anche quando sono positive. Nel nostro lavoro di ‘maestri di strada’ noi non ci difendiamo con un sistema di trincee, di regole fisse, ma ci difendiamo in modo dinamico, ricostituendo continuamente le energie e le ragioni della professione e questo lo possiamo fare solo in un gruppo reale, in un gruppo di persone che si incontra concretamente e che è in grado di sciogliere i fili intricati di un lavoro che ha tutte le confusioni e le incertezze degli stati nascenti. Noi non possiamo riferirci ad un sistema di regole custodito da vestali astratte, ma costruiamo legami e regole nella concreta interazione con i contesti. Per questo il nostro linguaggio non può e non deve essere quello dell’accademia, perché il nostro è un linguaggio situato e generativo. E questo fa parte del nostro mestiere perché noi non possiamo ergere barriere linguistiche tra noi e i nostri giovani. In altri contesti si parla di organizzazioni a "legame debole" e noi nel nostro contesto interpretiamo questa espressione come tentativo di presentarsi ai giovani ‘deboli’ e privi di armature. "Colui che giunge annunciato dal rumore dei propri passi morirà prima del tramonto" cosi vaticina una donna a Lancillotto che s’avanza bardato e rumoroso.(dialogo della prima scena del film Lancillotto e Ginevra di Bresson); non può vivere una relazione viva chi non si spoglia mai dell’armatura.

Esiste quindi sia sul piano dell’organizzazione, sia sul piano del linguaggio una differenza che non deve essere abolita tra la ricerca accademica e quella sul campo, occorre capire che né la ricerca accademica può negare il valore della fatica quotidiana di inventare e cercare risposte nuove a bisogni emergenti; né chi fa pratica può negare l’utilità e l’importanza della riflessione scientifica: un pensiero che non sia capace di pensare se stesso non è un pensiero. Abbiamo bisogno di pratiche riflessive e ne siamo limitati e distolti da quelle stesse pratiche che ci consentono di restare aderenti al compito. L’esperienza di collaborazione con la ricerca universitaria che i "maestri di strada" stanno conducendo, è anche un esempio di come il contatto di esperienze creative ed innovative con la ricerca accademica può rinnovare anche i temi ed i linguaggi della ricerca senza che nessuno debba rinunciare alla propria identità.

 

Dietro la relazione tra saperi accademici e competenze professionali situate c’è il problema profondo della relazione tra ‘infanzia e storia’ ossia tra lo stato dell’esperienza senza parole e le parole. L’esperienza diventa nostra maestra solo se riusciamo a darle la parola. Esistono anche esperienze ‘senza parole’: l’estasi, gli stati di ‘entusiasmo’, i momenti di "coscienza crepuscolare". E in tutte le civiltà queste forme di esperienza sono riconosciute come speciali e profonde. Tuttavia noi sentiamo il bisogno di parlare anche di queste e le opere letterarie e poetiche più alte sono state prodotte per esprimere l’inesprimibile cioè uno stato di coscienza e di conoscenza in cui ci si fonde e confonde con la realtà, uno stato di ‘depressione’ accogliente (immaginate per un momento la scultura di Bernini dell’estasi di Santa Teresa) in cui ci lasciamo invadere dalla realtà fuori di noi; questo stato "infantile" va conservato perché è all’origine di ogni nostra conoscenza vera e significativa ed è ciò che ci permette il contatto con gli stati "infanti" dei nostri giovani; ma questa è anche la zona in cui siamo più indifesi e ciò ci carica di emozioni e di ansie. Se noi non riusciamo ad esprimere ciò che ci preoccupa invece di assumere il controllo dell’esperienza sono le ansie e le emozioni ad assumere il nostro controllo: veniamo ‘agiti’ da forze ignote –come le ‘tarantate’- scambiamo i mal di pancia per pensieri, diventiamo preda di dinamiche primitive in cui si evita ciò che ci preoccupa e si ripete ciò che sembra accettabile. Potremmo parlare di ‘insegnanti tarantati’ ossia di insegnanti preda di fuochi sacri di ogni tipo, invasi da entusiasmi indicibili o viceversa da depressioni sconfortanti.

Il nostro essere infantili e spauriti è colto dagli allievi molto prima di noi: entrano in contato con le nostre paure, ci giudicano per quelle e non per il nostro sapere e noi li odiamo perché ci rimandano il senso della nostra paura. Così la preoccupazione principale diventa innalzare barriere ancora più alte e più impenetrabili di fronte alle persone con cui dovremmo entrare in contatto. In queste condizioni si sviluppa un irrazionale attaccamento alla razionalità, alle regole e alla comunità astratta che fa tutt’uno con l’incapacità di esprimere il proprio disagio, e di trovare le parole che strutturano l’esperienza. Le retoriche sulla professionalità, sulla centralità dell’allievo, gli entusiasmi per l’ultima moda teorica, l’adorazione per qualche guru accademico, nascono in questo modo.

 

Il lavoro che fanno i "maestri di strada" è quindi dipanare ogni giorno il filo della ragione e della parola in mezzo ai mari in tempesta di esperienze che coinvolgono i giovani allievi e che scuotono – perché noi vogliamo essere scossi – le nostre certezze ed i nostri capisaldi. Per fare questo dobbiamo necessariamente accettare un linguaggio pieno di connotazioni emotive e personali e partendo dalla condivisione emotiva delle esperienze costruire un discorso, un logos, comune e condiviso. In questo modo noi costruiamo noi stessi come "professionisti gruppali riflessivi": il gruppo, contenitore attivo di ansie ed emozioni, fornisce il sostegno dinamico al singolo, e la riflessione porta ciascuno ad interiorizzare l’esperienza sotto forma di concetti. In questo modo lungo gli anni si costruiscono "automatismi comportamentali" guidati dai concetti che ci consentono di fronteggiare situazioni difficili ed emotivamente dure in modo pacato e pieno di forza. Le regole della professione sono costruite e stabilite nell’esercizio di essa in un processo che non ci vede separati dall’oggetto della professione; l’apprendimento è un processo circolare: nell’incontro con i giovani e nella relazione che stabiliamo con loro; dall’aiuto al loro processo riflessivo, nasce anche la riflessione su noi stessi, sulla professione e sul nostro essere. La circolarità dell’apprendimento è la regola fondante di una comunità educante in cui i giovani siano soggetti attivi.

 

Il linguaggio che costruiamo in questo modo accoglie al tempo stesso la nostra riflessività e la nostra capacità di stabilire relazioni con l’altro ed è a questo che dobbiamo ancorare il nostro dire e non alle comunità astratte della scienza. Ritrovare la freschezza del linguaggio educativo è possibile se si resta ostinatamente attaccati al compito originario senza lasciarsi sedurre da appartenenze e fedeltà di altro tipo.

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