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Passione ed intelligenza nella fondazione di una comunità di educatori

Passione ed intelligenza nella fondazione di una comunità di educatori

Passioni, fedi, sofferte realtà
Educare creando legami e vivendo i luoghi, intrecciando i fili invisibili delle emozioni e dei sentimenti con le reti concrete, di persone, istituzioni, case, luoghi, costruzioni dell’intelletto umano.
Una comunità di pratiche si distingue da un qualsiasi gruppo professionale o scientifico perché ambisce a mantenere uno stretto legame tra i sentimenti e le emozioni che legano le persone tra loro e che sono coinvolti nel lavoro che fanno e le conoscenze organizzate che sono alla base della professione. In ogni attività umana le emozioni e le relazioni sono ciò che muove all’azione e al pensiero che dirige l’azione. Nelle attività che riguardano interazioni con le persone e particolarmente in quelle che riguardano i processi di pensiero e quindi la zona più intima della persona, emozioni e sentimenti sono implicati nel modo più pervasivo in quanto sono il motore del pensiero e sono esse stesse oggetto di attività e di pensiero.
Le passioni, il coinvolgimento profondo e vitale in una relazione o in una attività sono il risultato di una pulsione naturale, di una sorta di istinto non analizzabile o è possibile suscitarle e mantenerle in vita?
Abbiamo l’ambizione di riuscire in questa operazione e lo abbiamo fatto partendo da due elementi fondanti:
le passioni esistono e vivono solo in un contesto di relazioni e di reciprocità, ossia in una comunità.
le passioni per una attività sono strettamente connesse al senso di efficacia che ciascuno riceve nel realizzarla. Le attività che non conosciamo bene, che ci forniscono continui insuccessi e frustrazioni, non ci appassionano. Ci appassiona ciò in cui riusciamo e che riusciamo a migliorare e che ci migliora la vita.
Nella comunità di educatori si incontrano persone che hanno in comune l’affrontare i problemi con passione, sentendoli con tutto l’essere e sentendo che questo è l’unico modo di essere umani. Ci sentiamo uniti più dal modo di essere che dall’adesione ad astratti principi.
Quella che segue è la dichiarazione possibile di un gruppo di educatori che riunisce in un certo punto del proprio percorso professionale per riflettere su alcune pratiche fondanti.

Passione ed intelligenza

Siamo uniti dall’importanza che attribuiamo al lavoro educativo – nelle scuole, nelle comunità, in strada, in ogni luogo – come momento di costruzione della convivenza. Siamo uniti dall’importanza che diamo agli affetti, alla cura, alle relazioni e alla reciprocità in esse, ai legami prossimi, familiari, amicali, magistrali.
Sentiamo il bisogno di ritrovare i fili della nostra umanità nel rapporto con i bambini e con i giovani e con quelli che sono ai margini, perché sono loro che vivendo fuori da ruoli precostituiti ci interrogano sul senso della vita. Insieme a loro abbiamo imparato a lavorare senza l’ombrello di verità incrollabili, ma siamo pieni di paure e timori: ci vediamo anche per consolarci a vicenda e per dirci quali strade stiamo aprendo.
Ci chiediamo dove e come è possibile educare ed educarsi. Se è possibile produrre comunità. Come può operare la famiglia in una realtà così complessa. Se ci muove verso l’altro ciò che è giusto.
Sappiamo che il luogo per eccellenza dove si realizzano questi incontri tra generazioni sono i luoghi della cura parentale, le famiglie. E sappiamo anche che in troppi casi la famiglia non c’è perché è stata lasciata in terre lontane o è molto debole perché avvilita dalle difficoltà della vita. Noi crediamo che qualsiasi attività di inclusione sociale debba in primo luogo ricostituire una relazione di cura, aiutando le famiglie o i pezzi di famiglie esistenti e mobilitando la comunità a farsi "famiglia sociale".
Nel nostro incontro tutto questo viene simboleggiato dall’organizzazione dell’ospitalità che è parte integrante del nostro lavoro. I momenti di convivialità, di libero ed informale scambio non sono parentesi nel lavoro ma sono un modo diverso e più molecolare di sviluppare le relazioni tra tutti i membri della comunità.
Noi educatori ci preoccupiamo delle nostre città e del nostro vivere civile. Le città non sono le forti mura e i cantieri - diceva Aristide – la città è la gente che sa cogliere le occasioni che essa offre. Costruire la città non è solo costruire case, ma anche e soprattutto produrre occasioni di incontro, ed apprendere e crescere attraverso le occasioni della città. Pensiamo di edificare insieme i legami che istituiscono gli spazi della convivenza e gli spazi urbani, dove gettare l’àncora dei legami sociali cosicché la città torni ad essere innanzitutto la gente.
Cerchiamo di apprendere gli uni dagli altri, ma cerchiamo anche di creare legami: rapporti di prossimità tra persone geograficamente lontane. Un modo per costruire un mondo di pace contro ogni tentazione a tenere le distanze.

Una configurazione di lavoro per l’apprendimento circolare

Nei nostri incontri noi apprendiamo circolarmente. Né ci interessa l’illuminazione di un sapere distillato ai piani alti della riflessione scientifica e filosofica – ci sono altre sedi e modi per questo necessario confronto – né ci interessano menti eccelse che raccogliendo frammenti di esperienza costruiscono brillanti sintesi. Per il necessario lavoro teorico ci sono altre sedi e modi. Ci interessa entrare in contatto con un sapere distribuito, con ciò che ciascuno pratica nel suo lavoro e ci interessa restituire a ciascuno un sapere fecondato ed ibridato dal rapporto con il sapere degli altri. Noi realizziamo in questo modo un apprendimento circolare piuttosto che un accumulo di sapere in un polo gerarchico. E nella circolazione del sapere le nostre emozioni e il nostro saper condividere emozioni e sentimenti costituiscono l’infrastruttura e il legante che tiene insieme anche ciò che è diverso e che sfugge alla logica sintetica e lineare.
Noi ci aspettiamo di uscire da ogni incontro comunitario con qualche cosa di più di quello con cui siamo entrati. E’ quindi molto importante il confronto e l’integrazione delle esperienze che si realizza attraverso lo sviluppo di una narrazione condivisa. Perché se noi ci raccontiamo semplicemente tutte le esperienze in parallelo, usciamo come siamo entrati, cioè senza aver appreso qualche cosa di nuovo. Dobbiamo poter integrare ciò che sentiamo dall’altro dentro le nostre conoscenze, nelle nostre esperienze. Il processo che devono realizzare i bambini, gli adulti, le persone che vogliono essere vive quando si trovano in una situazione che devono affrontare per portare avanti la vita: un processo di apprendimento. Siamo convinti che l’apprendimento non è una caratteristica dei bambini, non è una caratteristica di un’età: è una caratteristica dell’uomo, la capacità di apprendere dall’esperienza.
Per apprendere dall’esperienza è necessario avere un metodo e la possibilità di confronto, perché altrimenti dall’esperienza si possono apprendere solo le paure, i totem e tabù. Un evento diventa esperienza se sviluppiamo un processo di riflessione. Diversamente nelle difficoltà della vita noi riproduciamo solo reazioni elementari mosse dalle emozioni più primitive: evitiamo ciò che ci ha prodotto frustrazione o danno ricerchiamo ciò che ci ha prodotto soddisfazione e piacere. E questo significa sviluppare un pensiero pieno di interdetti e divieti, pieno di pulsioni incontrollate e non comunicabili.
Gli educatori devono essere capaci di affrontare i problemi, proponendosi di essere esempio vivente per i giovani di che cosa significa cultura, sapere e scienza. Noi dobbiamo sempre parlare il linguaggio del mastro, di colui che sa qualcosa in più piuttosto che il linguaggio di chi professa – professore - una fede in verità già stabilite. Noi dobbiamo essere persone che aiutano altre persone ad apprendere ciò che loro stesse stanno apprendendo. Nel lavoro di gruppo tra educatori noi intrecciamo i nostri discorsi e le nostre parole, creando un tessuto forte in grado di sostenere i giovani che crescono. Ascoltare o assorbire il discorso di qualcuno senza creare uno stretto intreccio di pensieri e relazioni non serve al nostro lavoro.

Primo: intrecciare le parole

I gruppi di discussione sono organizzati per far parlare il maggior numero di persone. La brevità degli interventi è relativa al fatto che nessuno deve sentire il bisogno di fare un discorso compiuto, chiudere il proprio dire in una forma chiusa. Al contrario i frammenti interessano più di ogni altra cosa e ciascun discorso viene accettato, registrato come contributo. Il modello della disputa per cui un discorso prevale sull’altro ci interessa poco, interessa piuttosto riuscire a comporre un mosaico sensato. Spesso i discorsi restano in sospeso, registrare il provvisorio è quasi più importante che codificare il definitivo. Abbiamo bisogno di discorsi aperti perché è la narrazione, il continuare la storia che da senso ai discorsi e non la loro perfezione formale.
Il compito non solo di chi conduce il gruppo, ma di tutti i membri del gruppo, è di fare in modo che questa consegna, cioè della partecipazione di tutti, sia il più possibile rispettata.

Secondo: la priorità dell'esperienza

I lavori del gruppo in generale sono introdotti da un breve intervento riferito alle situazioni di lavoro e ai nodi problematici incontrati. Si tratta quindi di riflessioni su attività svolte e sui metodi e i costrutti utilizzati per affrontarle. E’ bene in questi casi accennare anche a qualche riferimento teorico e metodologico per evidenziare come i problemi che affrontiamo anche quando sono collocati in un tempo e uno spazio limitati fanno riferimento a una storia pregressa e più larga in cui sono stati, e sono, impegnati molti operatori e ricercatori. Le relazioni che proponiamo non possono avere il tono di opinioni improvvisate oppure essere la ripetizione di opinioni correnti, luoghi comuni irriflessi, ma si presentano già come frutto di pratiche condivise e di pensieri formulati da comunità piuttosto che da individui. Per questo motivo ancoriamo rigorosamente ogni intervento all’esame di una situazione, perché ogni discussione che parta da idee generali si trasforma rapidamente in una competizione ideologica in cui si perdono i criteri di verità. Ossia il riferimento alle realtà. In un certo senso proponiamo una varietà del “metodo sperimentale” che non consiste nello sviluppo di esperimenti come quelli delle scienze fisiche rigorosamente formalizzati nei codici numerici, ma certamente riflessioni che si riferiscono a realtà osservabili ed osservate. In questo modo noi non ricerchiamo una verità assoluta e universale, ma ci attrezziamo a navigare nei mari dell’’incertezza, cerchiamo di costruire idee condivise perché sappiamo che dalla condivisione nasce un esame critico più avanzato, la possibilità di migliorare la lettura del reale e gli schemi d’azione per intervenirvi. Il fatto che molte persone in comunicazione tra loro, socialmente solidali, emozionalmente vicine conducano esperienze simili e diverse produce in modo immediato le prove e le controprove della validità di un costrutto, di una lettura. Poiché nel lavoro educativo noi entriamo sistematicamente in relazione con persone che sono estranee al sistema di pensiero e di riferimento a cui noi ci riferiamo, è fondamentale fare sistematica esperienza di punti di vista diversi, di letture opposte dello stesso fenomeno, di percezioni diverse della stessa realtà. I nostri gruppi di discussione ci fanno sperimentare, in una situazione protetta, tra adulti responsabili, quanto sia complessa la lettura del reale, quanti possono essere diversi i punti di vista. Se vogliamo incontrare l’animo dei giovani con cui lavoriamo dobbiamo riuscire ad accogliere tanta diversità senza pretendere di metterla in ordine, senza pretendere di affermare una lettura unica. Dobbiamo piuttosto produrre una lettura condivisa e questo dobbiamo farlo insieme ai giovani con cui lavoriamo perché in un certo senso noi dobbiamo apprendere insieme a loro e non proporgli la nostra lettura del reale. Ciascuno apprende per sé ed è dal sé che proviene la significazione, il senso personale dell’apprendimento

Terzo: la restituzione

Il concetto di restituzione così come lo usiamo nel nostro gergo appartiene al lessico dell’apprendimento circolare.
Nello schema di apprendimento mutuato dalla disputa accademica e prima ancora dalla disputa giudiziaria, si propone un accumulo di argomenti pro e contro ed infine viene decisa l’opinione prevalente. Possiamo avere metodi ‘sintetici’, ossia modi di risolvere la disputa in cui le tesi e le antitesi vengono ricondotte ad un principio unificatore di tipo sintetico. E lo schema classico delle decisioni politiche in cui a seconda dei casi si tagliano o si sintetizzano le posizioni estreme per giungere ad un principio unificatore. E sono anche gli schemi democratici: una testa un voto, in cui ciascuna opinione vale come quella di un altro e alla fine vince chi raccoglie più voti. Dovrebbe essere chiaro a chiunque che la verità non può essere sottoposta al criterio di maggioranza e che questo metodo dovrebbe essere bandito da una comunità scientifica. Tuttavia anche il metodo sintetico non si presta al nostro bisogno per i motivi detti nel precedente paragrafo; la restituzione quindi non deve avere le caratteristiche della sintesi ma piuttosto quello di una rapsodia organizzata. Il processo che noi attiviamo è un processo di esternalizzazione di problemi e pensieri che vengono raccolti non da un individuo, sommo interprete, ma dal gruppo che è al tempo stesso la realtà concreta delle persone che discutono e una realtà astratta di tipo superindividuale. Attraverso la restituzione, il pensiero del gruppo astratto torna alla concretezza dell’individuo, ed il gruppo stesso diventa sostegno all’individuo piuttosto che luogo di annullamento della individualità. In questo modo ciascun individuo diventa agente di un pensiero superindividuale e ciò gli consente di trovare un appoggio mentale in tutte le situazioni di incertezza, dubbio, confusione. Le certezze quindi non vengono dalla perfezione formale del pensiero, ma dai legami con un gruppo di pensiero, dalla certezza della reciprocità nelle relazioni.
Le persone che sono incaricate, preferibilmente a turno, di fare un report della discussione, hanno un ruolo attivo nel riorganizzare il pensiero di gruppo, usando forme espositive più vicine alla narrazione che non alla relazione scientifica. Per questo ci serviamo molto di più di mappe mentali complesse che non di schemi piramidali. La mappa mentale in questo senso è per noi soprattutto un artificio mnemonico che ci è utile per collocare la varietà delle idee e delle proposte utilizzando dei marcatori, dei principi guida di carattere locale e provvisorio.
In questo modo noi speriamo di restituire a ciascuno una via di accesso al pensiero di tutti, un modo concreto di intrecciare pensieri ed esperienze in una tela in cui l’intreccio costituisce una immagine ricca e complessa partendo dalla varietà di colori portata da ciascun filo. In questo senso l’immagine di sé che si ha attraverso il gruppo è infinitamente più ricca di quello che ciascuno si riconosce, e questa immagine può fare da traino per lo sviluppo individuale, tracciare la rotta per lo svilupo. Per noi come per i giovani allievi l’immagine e la rappresentazione di sé elaborata nel gruppo precede lo sviluppo reale. In tutte le esperienze di gruppo ben condotte c’è un punto in cui i partecipanti hanno una sorta di rivelazione di se stessi, in cui si tocca con mano un sogno realizzato e questa esperienza fortemente emotiva può accompagnare positivamente il duro lavoro quotidiano. Il lavoro di riflessione sulle esperienze diventa in questo modo anche lavoro di “manutenzione della passione”, rinnovo di ciò che ci muove all’impegno. E di nuovo dobbiamo ricordare che questo vale per noi e per i giovani con cui lavoriamo, che la condizione perché i giovani si impegnino con passione nella propria formazione è che anch’essi facciano questo tipo di esperienza e che gli educatori che li accompagnano abbiano questo tipo di esperienza, e sappiano riproporla ai giovani.

Sette temi di discussione

Una comunità di apprendimento professionale non nasce all’improvviso, ha un percorso di crescita, ci sono riti di fondazione, riti di passaggio, percorsi di sviluppo. Qui indichiamo alcuni temi scelti tra quelli che hanno il maggior rilievo in un processo di formazione condivisa tra operatori della conoscenza che lavorano in diversi contesti istituzionali ma in un unico contesto di lavoro con i giovani. Molti altri temi possono essere proposti come punto di partenza per verificare la possibilità di essere comunità, quelli che seguono sono quindi solo un suggerimento basato su molte esperienze con gruppi eterogenei di educatori.

1 - Assumere la realtà dei giovani, accompagnarne la crescita, imparare da loro

Assumere la realtà dei giovani. E’ la parte più difficile del nostro lavoro. Riuscire a capire in profondità chi sono i giovani. Riuscire a fare in modo che siano carne della nostra carne, perché solo questo ci consente il lavoro successivo.

Pratiche di avvicinamento

Entrare in contatto con i ragazzi e con giovani è un arte difficile, soprattutto quando per molti motivi hanno sviluppato in modo raffinato pratiche di evitamento. I giovani sono sensibili più di ogni altro all’essere e avvertono ciò che è falso ed inautentico a grande distanza. Occorre un grande lavoro su se stessi per essere accettati, un lavoro che non si fa al chiuso e che si fa soprattutto esponendosi agli attacchi. Imparare dalle sconfitte è un’arte difficile. Condividere il dolore delle sconfitte è un buon inizio per discutere di questo tema.

Pratiche di accettazione

I nostri giovani sono tutti belli, buoni e puliti. Oppure no! Sono brutti, sporchi e cattivi! Accettazione significa riuscire a vedere bellezza, bontà, pulizia nei loro opposti. Il progetto individuale per i giovani è innanzi tutto una idea visionaria che deve trovare i canali di sensate realizzazioni. L’accettazione non può realizzarsi in modo spontaneo ed intuitivo, occorre mettere in lavorazione i sentimenti e le emozioni provate di fronte all’altro, condividere e negoziare con altri operatori tutto questo e forse alla fine riusciremo ad accettare l’altro, ossia a costruirci una immagine positiva. Detto in altro modo occorre che ci facciamo sedurre prima di poter educare: andare incontro all’altro prima di intraprendere un percorso comune.

Reciprocità e circolarità

Nel lavoro educativo nulla è a senso unico, senza reciprocità non c’è storia, non c’è evoluzione, non c’è crescita. L’assenza di reciprocità provoca la dipendenza dell’altro, una situazione di indebitamento crescente del debole di fronte al forte che si conclude in modo tragico per la relazione e per le persone in essa coinvolte. Molte delusioni, tradimenti, insuccessi poggiano al fondo sull’assenza di reciprocità. L’assenza di reciprocità è la malattia congenita dell’altruismo e della generosità. Dobbiamo molto lavorare su questo.
Reciprocità significa accettare i doni dell’altro, far sentire che cresciamo attraverso lui. Educare e sedurre, tirare fuori dallo stato di cose esistenti e attirare a sé sono i due movimenti della relazione educativa che si inseguono circolarmente: lasciarsi affascinare dai giovani, aiutarli a crescere affascinandoli a nostra volta, essere affascinati dal nuovo essere che è frutto della crescita. E ricominciare.

2 - Educare educandosi - crescere insieme; apprendere dall’esperienza; mettere in lavorazione le esperienze; sviluppare un pensiero di gruppo. Creare una comunità di pratiche.

Educare educandosi, significa riuscire ad apprendere dall’esperienza, soprattutto riuscire ad apprendere dalle sconfitte. E’ un mestiere importantissimo questo, senza del quale non ci si può proporre come maestri agli altri.
Le pratiche professionali connesse al lavoro con i ragazzi: il mestiere di educatore, differenze e affinità con il lavoro docente. Educatori e docenti sono latori di un messaggio educativo il cui contenuto è la persona stessa. Questo è il terreno comune di intesa tra due professioni che si svolgono in luoghi fisici diversi ma coinvolgono entrambe l’essere. Potremmo dire che entrambe sono "professioni di testimonianza" perché esibiscono se stesse come prova di verità. Perché il testimone – martyr – non diventi martire massacrato per la proria fede occorre una assistenza continua finalizzata a mantenere l’integrità della persona, a ripristinare le energie psichiche impegnate. Lavoro gruppale e sostegno alla riflessione da parte di operatori terzi, sono stati sperimentati in vario modo come momenti di sostegno alla persona dell’educatore. Nel lavoro educativo e sociale le risorse energetiche dell’uomo sono inesauribili oppure sono limitate? Esistono valide pratiche per rinnovare le energie psichiche?

L’osservazione partecipata come principio attivo per la trasformazione delle pratiche

Il lavoro educativo come sostegno alla rete delle relazioni umane di cui è intessuta la vita dei giovani. La sistematica osservazione delle relazioni come osservazione di un campo di forze dentro cui sono implicati insieme i ragazzi, gli operatori, le famiglie, è necessaria a sviluppare azioni consapevoli e a gestire la complessità dei sentimenti, delle relazioni, delle conoscenze che in esso si agitano.

3 - Produrre socialità e comunità; deontologie professionali e diritti di cittadinanza; lavoro con le istituzioni; creare istituzioni sociali.

Produrre socialità. Il sociale non è rimedio ai guai, ma è l’essenza del vivere umano. Dovremmo riuscire su questo ad essere molto forti. Molto forti sul fatto che il bisogno di socialità e di comunità non è un bisogno dei disgraziati e degli emarginati, ma è un bisogno: A) dei privilegiati e B) dei disgraziati. I disgraziati per forza di cose un po’ di comunità se la devono fare altrimenti non sopravvivono. Forse hanno bisogno di comunità più i privilegiati che i disgraziati. Dobbiamo declinare al positivo l’espressione "produrre socialità e comunità".

Reciprocità

La reciprocità nel lavoro con i giovani mette in primo piano l’accoglienza della realtà del giovane dentro ciascun operatore, quindi la capacità di restituire al ragazzo stesso i suoi doni rielaborati e rafforzati con un punto di vista adulto.

Deontologia e cittadinanza

Reciprocità, restituzione, circolarità insieme ad altro vanno a costituire una deontologia dell’educazione e degli educatori che definisce i limiti ed i punti di appoggio di un professione difficile; una base solida di negoziazione da un lato con i cittadini-utenti, dall’altro con istituzioni e strutture. La promozione della partecipazione, la crescita della cittadinanza giovanile - intesa come sovranità e dignità della persona, pienezza di essere, - rappresenta in ultima analisi la missione di ogni intervento con i giovani.

Alleanze necessarie nel lavoro educativo: la famiglia

Il contratto sociale, il contratto educativo, l’alleanza pedagogica, l’alleanza sociale costituiscono lo sviluppo naturale dei sentimenti di appartenenza legati alla cura. Nessun progetto educativo o sociale può svilupparsi in modo sano se non a partire dall’aiuto alla cura o dalla riattivazione della cura. Questo significa che ogni progetto sociale ed educativo deriva dalla cura parentale ed è una sua estenzione. E’ fondato quindi sulla relazione con la famiglia. La famiglia nucleare che è stata storicamente l’interprete della relazione di cura a partire dal legame di coppia oppure “agenti della cura” socialmente accettati. La famiglia non è stata sempre eguale a se stessa, per molto tempo è stata il ponte verso lo sviluppo di una più ampia socialità, spesso è stata la barriera al pieno sviluppo di una comunione degli uomini. La famiglia che conosciamo oggi è una famiglia piuttosto chiusa che manifesta in vario modo una difficoltà di adattamento alla società così come è oggi organizzata. Nel sostenere il ruolo parentale e quindi il ruolo della famiglia occorre anche sostenere ed orientare la famiglia ad una maggiore apertura e collaborazione sociale, senza della quale le famiglie ripiombano nell’isolamento e nella impossibilità a contenere le angosce e le difficoltà che nascono nella vita sociale.

4 - Interazioni tra parentela, comunità, società: alleanza e sostegno alla cura genitoriale, sviluppi comunitari e sociali della cura parentale. Professioni del sociale per sviluppare nuovi legami.

La cura parentale. La centralità della relazione di cura tra esseri umani è agita dalla coppia di coniugi, ma anche da persone che non sono coniugi, persone che stanno in una comunità. La relazione di cura è un tipo di relazione che va esplorata in tutta la sua specificità, perché è questa che ci consente di andare avanti.
La partecipazione delle famiglie; modi di impegno nei progetti educativi, modi di partecipazione alla costruzione della convivenza; dall’assistenza all’auto aiuto.
La partecipazione del territorio - comunità di persone che istituisce il territorio come ambiente umano - al lavoro educativo rappresenta il naturale sviluppo della “alleanza pedagogica”  con le famiglie; e quindi il luogo in cui la cura parentale famigliare evolve in cura parentale sociale. Il benessere dei giovani, la buona cura parentale e la convivenza civile sono tre aspetti dello stesso processo. Il malessere dei giovani è una sorta di indicatore ecologico della cattiva qualità dell’atmosfera sociale in cui ciascuno di noi è immerso.

Contratti, dialoghi, negoziati: nuovi modi di realizzare il contratto sociale, nuove forme della polis

Nel territorio si stabiliscono e realizzano alleanze tra persone e contratti tra istituzioni. Il modo di prendersi cura dei giovani contribuisce a disegnare nuove organizzazioni locali, un nuova forma dello Stato. (processo di decentramento) I processi di trasformazione delle istituzioni e delle leggi fondamentali dello Stato postulano l’esistenza di istituzioni diverse ed autonome che devono continuamente dialogare e negoziare i rapporti. Le reti istituzionali che si occupano dei giovani non possono essere più separate o aggregate intorno alla scuola ma intorno ai rappresentanti dei cittadini, alla municipalità che ha un ruolo di aggregazione e stabilità delle diverse autonomie.

Rituali fondanti della civitas e cittadinanza attiva

I modi in cui si organizzano i processi di condivisione, in cui si attiva la partecipazione, in cui si realizzano riti e rituali fondanti della convivenza civica sono uno dei terreni di confronto per la costruzione delle professioni del sociale e per la costruzione di una politica come promozione della socialità piuttosto che come mera amministrazione. Un terreno di confronto quindi tra chi è delegato ad amministrare e chi da cittadino intende esercitare il proprio potere e dovere civico di verifica e controllo.
Incontro tra professioni, la condivisione come base per lo scambio tra professioni e perché ciascuna apprenda a cambiare.
Lavorare nel territorio implica l’incontro di professionalità diverse, di pratiche professionali organizzate da regole interne, pratiche che rischiano di essere unilaterali e di scomporre, sbranare, l’unicità dei soggetti di cui si occupano. Il confronto interprofessionale, l’integrazione delle diverse pratiche professionali è un problema che sta a monte della collaborazione interistituzionale e che implica un cambiamento in ciascuno degli attori del lavoro sociale. A quali condizioni è possibile uno scambio significativo tra le professioni, a quali condizioni è possibile sviluppare un lavoro veramente comune: condividere sentimenti ed emozioni è uno dei punti cardine per un buon lavoro sociale. Le pratiche di condivisione devono appoggiarsi su un sostrato culturale comune su una formazione integrata dei diversi operatori sociali, e sulla costituzione di comunità professionali locali in cui si sviluppa una continua ricerca e ridefinizione dei protocolli di lavoro. Come assistere e sostenere le comunità di pratiche, su quali basi sviluppare la condivisione delle esperienze costituisce terreno di confronto di diverse scuole di pensiero. Occorre confrontare diverse esperienze per capire quelle che funzionano creando le condizioni perché il confronto avvenga sul terreno delle verifiche piuttosto che su quello delle opzioni ideologiche.

5 - Molte pedagogie, molte intelligenze, molti contesti d’apprendimento, molti modi di apprendere e di lavorare.

Molti hanno l’idea che ci sia un solo modo di apprendere, che ci sia una sola intelligenza, che ci sia una sola figura di insegnante. Non è vero. Ci saranno almeno venti espressioni diverse per designare l’insegnare. C’è il docente, il professore, l’istruttore, l’allenatore, l’istitutore, il maggiordomo (il maggiordomo dava anche istruzione). Quindi ci sono moltissime forme di istruzione e di educazione e ognuna si svolge in un modo diverso. La figura di chi esercita è diversa, il contesto in cui esercita è diverso, l’epistemologia è diversa. Epistemologia, ovvero il modo in cui si presentano gli argomenti, il modo in cui si presenta il sapere è diverso. Quindi se vogliamo fare un buon lavoro su noi stessi e sui ragazzi con cui entriamo in rapporto, abbiamo il dovere di capire bene la differenza che c’è tra i diversi modi di apprendere. Il motivo fondamentale della sconfitta della scuola di fronte a ragazzi che sono difficili, spesso sono semplicemente di una individualità irriducibile, è l’incapacità di capire che esistono intelligenze diverse e modi di apprendere diversi. Una delle caratteristiche della scuola è quella di non saper riconoscere le competenze che esistono nei ragazzi indipendentemente dall’apprendimento scolastico. Una delle caratteristiche della scuola è di mettere fuorilegge ciò che tu non apprendi a scuola. E quando il sapere non scolastico è più forte di quello scolastico, si mettono fuori legge i ragazzini. Quindi da un punto di vista tecnico, questo argomento è estremamente importante, perché serve a focalizzare gli strumenti pratici per saper affrontare ciascun ragazzo nella sua irriducibile singolarità. Perché ogni ragazzo è singolare: non è singolare il diversamente abile o lo straniero, sono singolari tutti.
E’ il nostro sguardo che rende ciascuno singolare o anonimo, individuo concreto o astrazione stereotipata.
Noi spesso siamo impigliati dalle convenzioni, non riusciamo fino in fondo a manifestare la nostra singolarità, ma manifestiamo invece il nostro adeguamento a stereotipi speciali. Quindi, quando noi parliamo di accogliere la singolarità dei ragazzi, parliamo non di accogliere i ragazzi sfortunati, a disagio ecc., ma di accogliere tutti i ragazzi nella propria completa individualità e quindi umanità. Quindi questo capitolo: Molte pedagogie, molti modi di apprendere e di lavorare - è assolutamente essenziale per quello che riguarda poi le nostre capacità pratiche di lavoro.

Ricollocare la scuola nelle comunità di vita

Il problema dei problemi è il rapporto con la scuola. La scuola è il parente più prossimo dell’educazione territoriale e proprio per questo c’è il rapporto più difficile. E’ possibile tenere insieme l’educazione come si sviluppa nella famiglie e nelle comunità di vita con l’istruzione come si sviluppa in quella istituzione specializzata che si chiama scuola? E’ possibile una alleanza in cui giorno per giorno l’istruzione fornisca mezzi, strumenti, concetti, scienza per migliorare la comprensione del mondo e arricchire le possibilità di relazione? e viceversa è possibile che l’educazione nei contesti di vita fornisca esperienze, senso, significatività sociale che sono la molla ad impegnarsi nello studio? E’ possibile una scuola che sia prolungamento sociale della cura parentale ed una cura parentale che sappia usare i mezzi intellettuali forniti dalla scuola per migliorare le relazioni tra i giovani e con i giovani? Se la scuola vuole sostituirsi alle famiglie e al sociale, se il sociale vuole relegare la scuola in un angolo, non si va da nessuna parte. Bisogna che ci siano ‘prove di dialogo’ tra educatori nel sociale e docenti nelle scuole. Forse non siamo ancora entrati del tutto in una logica di rete, in cui non c’è un centro ma solo nodi e snodi: stando in un nodo qualunque ciascuno deve fare la propria parte guardando a un insieme complesso di relazioni senza pretendere di dettare leggi generali.

Pedagogie nella scuola, pedagogie fuori scuola, pedagogie dell’uomo.

Occorre confrontare le pedagogie nella scuola con le pedagogie, sempre più numerose, fuori della scuola. Processi di istruzione e processi di sviluppo sociale sono entrambi fondati sull’apprendimento, sulla capacità di creare nuove raffigurazioni del reale e nuovi scenari per l’azione. Forse c’è una professione dell’apprendere che è matrice comune dell’educazione, dell’istruzione e del sociale. Forse la professione dell’apprendere è la professione dell’uomo. Forse i migliori professionisti dell’apprendere possono essere i giovani. Forse dobbiamo andare a scuola dai giovani. Forse il nodo più solido della rete delle relazioni sociali possono essere i giovani.
Didattiche motivate
E’ possibile una didattica motivante e motivata? E’ possibile districare dalla complessità delle relazioni, delle emozioni, dei sentimenti idee chiare e distinte, concetti che migliorano la capacità di ciascuno di agire nel reale? E’ possibile una alleanza tra pedagogie di strada - della vita - e pedagogie d’aula se sappiamo accogliere e tener vive le passioni in ogni contesto; se sappiamo mettere materie e discipline al servizio della persona e mai pretendiamo di irreggimentare la persona nelle discipline. Ci sono esempi di questo modo di fare, ci sono matematiche passionali, computer emozionanti, tecnologie sentimentali. E ci sono poesie rese aride, musiche ridotte a rumore, romanzi senza storia; giochi noiosi, animazioni esangui. Non è il contenuto fare la differenza ma la passione che coinvolge l’uomo che lo contiene e propone. La passione può essere il terreno d’incontro per intelligenze diverse.

6 - Le molte motivazioni: fedi, passioni, intelligenze, sofferte realtà. Professioni del sociale che coinvolgono l’essere.

I motivi dell’impegno. L’importanza delle motivazioni. Ciò che letteralmente ci muove. Che cosa ci muove? Quando andiamo verso l’altro? Questo è un punto veramente essenziale, perché qualche volta gli operatori diventano quasi oppressivi: quando si incontra l’altro non per arricchirsi dell’altro, ma per portargli un verbo, portargli una fede, portargli un credo, questo può non essere liberatorio. Allora l’analisi delle nostre motivazioni è assolutamente essenziale. La spinta al cambiamento nasce sempre da un disagio, da una sfida irrisolta che produce sofferenza. Si tratta di una sofferenza emotiva e razionale insieme che ci spinge a cercare soluzioni. In molti casi la nostra storia, le nostre esperienze personali, hanno lasciato nell’animo sofferenze troppo grandi perché possano essere il motore di azioni positive e sono piuttosto un freno all’azione, un ostacolo da evitare. I nostri giovani in formazione necessariamente rievocano il nostro stesso processo di crescita e ci propongono situazioni che volevamo dimenticare. Non si può chiedere alle persone di rompere precari equilibri per affrontare gli squilibri altrui, è quindi necessaria una attenta considerazione dei motivi di ciascuno perché le spinte altruistiche qualche volta non sono adeguatamente sostenute da esperienze sufficientemente positive o elaborate.
Ci sono delle sofferenze che possono essere volte al positivo, ci sono delle sofferenze talmente profonde che non possono essere volte al positivo almeno in queste circostanze. Quindi l’auto analisi delle motivazioni è un discorso fondamentale, ed è uno dei discorsi che dovremmo fare molto tra di noi, perché le persone che si incontrano nel lavoro educativo sono mosse dalle esperienze più diverse. Noi ci possiamo trovare molto uniti su ciò che facciamo e molto divisi su ciò che ci muove. Lavorare esplicitamente su ciò che ci muove, è un modo per arrivare a non dividerci.

Le incertezze della passione

L’uomo ha una irrazionale passione per la razionalità. La ragione e l’intelligenza poggiano su una sconvolgente aporia – contraddizione logica - che ci consente però di ragionare sulla passione. Cosa è che ci motiva, che ci mette in moto? E’ il sogno onnipotente di una palingenesi sociale, la speranza metafisica di un giardino pacificato, la fede nel Dio creatore, la forza dei legami e degli affetti? Molte sono le religioni e le fedi, molti i credo ideologici. Esistono religioni della trascendenza e dell’immanenza, religioni della materia e dello spirito, religioni fondate su un Dio, religioni fondate sulla sua negazione. Nessuna di queste fedi è senza sofferenza e senza dubbio. Potrebbe essere bello che ciascuno esprima i propri dubbi, che gridi il proprio dolore: che si dica quanto sia difficile vedere Dio nella vita degradata di milioni di persone, che si dica quanto è difficile credere che l’uomo sia capace di costruire un mondo migliore, che si dica quanto sia difficile sperare nella gloria metafisica. Forse dovremmo essere tutti molto più laici e dirci quanto sia bello concludere il giorno avendo portato il proprio granello al benessere comune.

7 - Luoghi dell’animo, luoghi della città

Tra la topografia della città e la topologia dell’animo ci sono affinità e segrete corrispondenze, ci sono potenti relazioni alla ricerca di luoghi da abitare e luoghi che chiedono relazioni significative. L’ingegno di organizzare spazi, abitazioni, strade, edifici da vivere e da intersecare con ricche relazioni, l’ingegno di arricchire la propria vita della ricchezza dei luoghi. L’ingegneria e l’architettura civile possono essere egualmente riferite alle abitazioni e alle relazioni sociali. C’è un altro dialogo da aprire tra professioni sociali.
Il territorio è popolato da edifici, presenze sociali, presenze istituzionali, e ciascuna di queste presenze ha anche un forte valore simbolico, una capacità di parlare all’animo dei giovani e viceversa i giovani possono investire i luoghi,  le persone, le istituzioni di nuovi significati.
I graffiti urbani, i luoghi di spontanea riunione, le forme di spettacolo urbano più o meno formalizzate rappresentano modi dei giovani di appropriarsi della città, di marcare i luoghi con propri segni, e scrivendo la città , si iscrivono in essa e scrivono nel proprio animo. La città è il luogo della verità. Il luogo della verifica, dove si rende vera, la propria crescita. In un mondo che rimanda indefinitamente l’assunzione di ruoli adulti attraverso il lavoro, le pratiche di cittadinanza devono restituire ai giovani il senso della propria adultità in modo positivo in quanto portatori di utilità sociale per sé e per la comunità. Lo sviluppo di un nuovo senso di identità e di appartenenza dei giovani attraverso la scuola e l’educazione deve accompagnarsi in maniera molto forte alle pratiche di cittadinanza esercitate nel territorio: senza di questo la cultura del territorio invece di trasformarsi si ripiega sui giovani che crescono e ne nega in vari modi lo sviluppo. Questo è tanto più vero e tanto più difficile quanto più il territorio è percorso da modi di vita e cultura che negano la convivenza civile, che sono centrate sulla violenza e la sopraffazione.
Chi svolge il mestiere di educatore non può limitarsi stigmatizzare l’inciviltà dei contesti ma deve proporre attivamente una educazione del territorio (del e non ‘nel’ ) che accompagni i processi di crescita dei giovani e utilizzare i giovani stessi quali agenti di civilizzazione rendendoli consapevoli della propria capacità trasformativa e fornendogli i mezzi per essere attori del cambiamento. “I giovani sono risorsa, non problema” non può essere uno slogan retorico, ma deve essere una pratica sociale su cui investono innanzi tutto gli educatori e con essi le autorità politiche ed amministrative che vogliano fare una politica urbana degna di questo nome.

 
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