Dinamiche emozionali sottese alla relazione educatore-adolescente 

 

Relazione svolta dal prof Paolo Valerio al Seminario 
"L’Educazione come risorsa sociale" 
Napoli 18/4/2002 Teatro Mercadante

  1. La dispersione come difficoltà ad usare le proprie potenzialità
  2. La scuola principale contenitore deputato alla gestione dei passaggi
  3. Nuove strategie finalizzate a ridurre l'impatto delle difficoltà sociali
  4. conflitti esistenti nella scuola
  5. Promozione della crescita responsabile e riduzione dei fattori di rischio
  6. Mettersi assieme e riconoscere i profondi bisogni emozionali di cui i ragazzi a rischio sono portatori.
  7. Inscindibile rapporto tra dimensione cognitiva ed emotivo-affettiva
  8. processo intersoggettivo di narrazione condivisa
  9. Un contratto per la costruzione congiunta del sapere
  10. La funzione di autorità e la capacità di regolarla
  11. Il lavoro con gli adolescenti sollecita una consistente partecipazione emotiva
  12. Pensieri aggressivi, tentazioni di evitamento e di abbandono: un aiuto ad accogliere e riconoscere i sentimenti degli insegnanti.
  13. Paure e desideri molto complessi, conflittuali, talora inconsapevoli nel lavoro con adolescenti difficili
  14. Di fronte all'evocazione di sentimenti profondi l'operatore deve potersi interrogare e confrontarsi
  15. Un atteggiamento psicologico che aiuti la comprensione dell'altro
  16. L'autosservazione attraverso il gruppo: uno strumento permanente di conoscenza, di attribuzione di senso e significato

Nel corso del mio intervento affronterò il tema della dispersione scolastica e mi soffermerò in particolare a descrivere: 

1) alcuni aspetti cruciali che riguardano la relazione educatore-allievo a rischio di dispersione scolastica o "disperso"e le dinamiche emozionali ad essa sottese; 

2) alcuni modelli di intervento finalizzati a sostenere gli operatori del mondo della scuola, del mondo dei servizi e quelli provenienti dal cosiddetto volontariato sociale, impegnati a prevenire la dispersione scolastica.

La dispersione come difficoltà ad usare le proprie potenzialità

Quando parliamo di dispersione scolastica ci riferiamo a quella quota di bambini e adolescenti che non riesce a concludere gli studi nel numero di anni previsto o che non li porta a termine, interrompendo la frequenza scolastica prima del conseguimento del titolo, a causa di difficoltà ad usare le proprie potenzialità in conseguenza di problemi emotivi che si ripercuotono sul piano dei rapporti interpersonali.

Di chi è la responsabilità di tutto questo? Chi deve e può farsene carico? Proverò a dare una risposta a tali quesiti.

La scuola principale contenitore deputato alla gestione dei passaggi

Varie ricerche svolte in ambito psicologico hanno confermato che tra soggetto che sperimenta un processo evolutivo e l’ambiente in cui vive, esiste una relazione complessa e spesso inestricabile. Per i giovani di cui intendo parlarvi, la scuola deve essere considerata, quindi, un importante, se non il principale contenitore deputato alla gestione del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dall'adolescenza all’età adulta, o quanto meno, ad una parte sostanziale di esso (Giusti, 1995).

D’altro lato, nella società contemporanea le istituzioni scolastiche scandiscono ed organizzano il succedersi delle età, definiscono tappe e competenze e strutturano qualcosa di analogo a stadi di sviluppo. Potremmo, cioè, dire che finiscono, in analogia con i primitivi riti di passaggio, con il fornire una sorta di regolazione sociale al succedersi delle età (Melotti, 1993).

Nuove strategie finalizzate a ridurre l'impatto delle difficoltà sociali

Secondo tale prospettiva la scuola non si presenta, quindi, come neutra: essa è un possibile fattore di rafforzamento del disagio di un adolescente nel momento in cui non vengono riconosciute le problematiche personali e le esigenze specifiche di ciascuno e non viene, conseguentemente, predisposto un intervento educativo di supporto che prenda in considerazione tali difficoltà.

La scuola potrebbe svolgere, invece, una importante funzione di prevenzione nel momento in cui è messa in grado di promuovere al suo interno progetti educativi finalizzati a ridurre il peso dei fattori critici e a restituire a ogni allievo adeguate opportunità di sviluppo formativo ed educativo.

Per realizzare tale compito la scuola deve essere, quindi, in grado di porsi come un soggetto "nuovo", capace di attuare strategie di sostegno e prevenzione finalizzate a ridurre l'impatto delle difficoltà sociali che bambini ed adolescenti sperimentano nel proprio contesto di vita, familiare e sociale.

Conflitti esistenti nella scuola

Sono, però, molteplici i fattori su cui si deve intervenire per prevenire e/o arginare il fenomeno della dispersione. Questi possono essere identificati nei conflitti esistenti nella scuola; tra corpo docenti e genitori, tra docenti e allievi, tra scuola ed extrascuola, che incidono sulla qualità della relazione con gli allievi; nell’arretratezza culturale di molti adolescenti e molte famiglie a cui non mancano le possibilità di apprendimento e sviluppo ma che non sono in grado di sfruttarle in modo adeguato; nelle precedenti esperienze negative o critiche di scolarizzazione (queste riguardano soprattutto la scuola materna e la scuola elementare); nella debolezza educativa della famiglia che non riesce a integrare l’azione educativa della scuola e a sostenere il processo di apprendimento; nelle difficoltà di integrazione, che si aggiungono alle normali difficoltà di apprendimento che riguardano soprattutto gli adolescenti stranieri e quelli che provengono da fasce di popolazione emarginata.

Promozione della crescita responsabile e riduzione dei fattori di rischio

Tenendo conto di quanto detto, la finalità di qualunque intervento preventivo deve essere espressa, generalmente, in termini di crescita responsabile dei minori a livello culturale ed a livello sociale e di riduzione dei fattori di rischio. Questo obiettivo appare potenzialmente raggiungibile in quanto i bambini e gli adolescenti posseggono le risorse per superare le difficoltà perché siano messi in grado di avvalersene.

Parafrasando Elliott Jacques compito dell'educatore è, quindi, quello di "ispirare, stimolare gli studenti a voler imparare, portarli intellettualmente a camminare, aiutarli ad aprire la loro mente perché sappiano accogliere nuove conoscenze e nuove percezioni, dare loro l'esperienza di quello che è lavorare per raccogliere dati e risolvere problemi".

Mettersi assieme e riconoscere i profondi bisogni emozionali di cui i ragazzi a rischio sono portatori.

Per dare concretezza a questa finalità è necessario, però, immaginare la scuola non da sola, ma in interazione con altri soggetti presenti nel territorio, impegnata ad unire le risorse e le competenze. Per affrontare il fenomeno della dispersione è, pertanto, necessario costruire una rete tra i soggetti del territorio interessati ai processi di apprendimento, favorire le capacità comunicative tra gli adulti e sostenere gli insegnanti ed i genitori nell’esercizio del ruolo educativo. Ma non basta mettersi insieme. E' anche necessario riconoscere i profondi bisogni emozionali di cui spesso i ragazzi a rischio di dispersione scolastica e di tutti i fenomeni di devianza ad essa collegati, sono portatori.

Inscindibile rapporto tra dimensione cognitiva ed emotivo-affettiva

Per ottenere ciò è necessario offrire ai giovani impegnati nel processo educativo, per quanto problematici essi siano, un intervento educativo che, sulla base delle recenti acquisizioni nel campo della psicologia dell’educazione e delle teorie della mente, riconosca l’inscindibile rapporto che si viene a stabilire tra dimensione cognitiva e dimensione emotivo affettiva. Secondo tale ottica i processi educativi vanno collocati all’interno di specifici contesti nei quali, allievi ed educatori, sono impegnati, nell’ambito di una forte relazione, a costruire insieme la possibilità di dare un significato condiviso alle azioni intraprese ed ai comportamenti assunti.

processo intersoggettivo di narrazione condivisa

La costruzione della conoscenza va, infatti, considerata come un processo interattivo, contestualizzato in un preciso periodo storico culturale, nel cui ambito,attraverso la comunicazione conversazionale, educatore ed allievo imparano a dare un significato all’esperienza vissuta e ad assumere un atteggiamento di mediazione nell’affrontare le situazioni e nello svolgere i compiti assegnati.

La relazione educativa che si stabilisce tra adulto ed adolescente va, quindi, considerata come un processo di co-costruzione congiunta, che scandisce le dinamiche di insegnamento-apprendimento sottese al rapporto tra l’allievo e l’educatore.

Insegnare ed apprendere si possono considerare da questo punto di vista come un processo di narrazione condivisa ed intersoggettiva (Bruner, 1996). Si tratta, cioè, di situazioni in cui deve essere svolto un costante lavoro di interpretazione e negoziazione congiunta dei significati in gioco.

Il rapporto educatore allievo, per l’intrinseco carattere relazionale e processuale dell’attività mentale e cognitiva, richiede, pertanto, una costante mediazione finalizzata a dare un significato alle varie azioni implicate. Questo può essere realizzato attraverso una teoria della mente relativa ad interazioni, desideri, credenze proprie ed altrui.

Un contratto per la costruzione congiunta del sapere

Affinché questo rapporto prenda corpo e senso è necessario progettare e realizzare contesti didattico-educativi in cui è possibile stipulare un contratto relazionale e didattico, finalizzato ad una condivisione processuale delle conoscenze (Pontecorvo, 1993).

Dal punto di vista organizzativo e progettuale questo implica la realizzazione di contesti didattico educativi nell’ambito dei quali ogni insegnante, attraverso il rapporto comunicativo basato su una relazione fondata sulla negoziazione, costruisce insieme ai propri allievi un progetto educativo, definendo insieme a loro gli obiettivi da raggiungere e i significati su cui reciprocamente investire.

Ciò implica la possibilità di effettuare una modulazione continua del contratto didattico e dei suoi obiettivi, nell’ottica di un rapporto che vede allievi ed educatori impegnati a sostenere un reciproco investimento.

L’uso del termine "contratto didattico" va, infatti, contestualizzato in una dimensione di costruzione congiunta del sapere. Non intendo far riferimento a quelle estenuanti trattative di tipo sindacale, fatte di ricatti e compensazioni reciproche, che spesso vengono a stabilirsi tra adulti ed adolescenti. Faccio, invece, riferimento alla possibilità fornita all’educatore di investire e spendere la sua competenza, la sua ricchezza esperienzale e conoscitiva, il suo essere mediatore di saperi, nella costruzione di set di apprendimento più fruibili e significativi, in un’ottica per la quale la dimensione affettivo-emotiva e quella cognitiva sono integrate anziché separate.

La funzione di autorità e la capacità di regolarla

La disponibilità ad investire in una logica negoziale e più paritetica richiede all’adulto-educatore la consapevolezza della necessità che deve assumere e svolgere la funzione di autorità di cui è investito e deve essere capace di regolarla.

In tal modo, senza negare le differenze e le asimmetrie che regolano il rapporto ed accettando la richiesta, spesso silenziosa, di un coinvolgimento emotivo affettivo, sarà possibile offrire ai giovani ed a se stessi un’opportunità di emancipazione e crescita.

Il lavoro con gli adolescenti sollecita una consistente partecipazione emotiva

Diventa a questo punto, determinante affrontare e approfondire la questione dei nodi affettivi in gioco nella relazione educativa, nella consapevolezza che si tratta di dimensioni importanti ed ineludibili e che è realisticamente possibile acquisire una sensibilità e dimestichezza a riconoscerle ed a utilizzarle.

E’ questo, infatti, il presupposto di quella autorevolezza richiesta ad ogni adulto che voglia rapportarsi in un rapporto "sufficientemente buono" con l’adolescente a lui affidato.

La possibilità di assumere ed interpretare tale posizione e ruolo, implica la necessità di porsi in un atteggiamento di negoziazione continua con i propri interlocutori, nei termini di attenzione ai profondi bisogni di individuazione, di attaccamento e di cura che i giovani portano. Implica, altresì, la progressiva costruzione di una disposizione mentale orientata ad accettare il confronto con le reciproche richieste di restituzione di conferma della identità delle persone, di riconoscimento e di apprezzamento.

Non è facile sostenere tale compito, soprattutto se si è isolati, come sanno bene non solo gli educatori ma anche tutti quei genitori che non si sentono abbastanza sostenuti dal proprio partner nello svolgimento della loro funzione genitoriale.

Il lavoro con gli adolescenti sollecita, infatti, una consistente partecipazione emotiva e mobilita intense risonanze affettive. Queste riguardano la tollerabilità a rimanere feriti nel proprio amor proprio e nelle aspettative affettive ed educative, che sono spesso disconfermate dall’andamento di percorsi relazionali incerti e faticosi, talvolta fallimentari, che ingenerano nei genitori e negli educatori dolorosi sentimenti di delusione, sconforto, impotenza, disillusione.

Tali sentimenti sono evocati soprattutto in quelle situazioni nelle quali gli operatori, quali quelli coinvolti nel progetto Chance, si vedono sollecitati da bisogni di attaccamento e di cura particolari e molto intensi.

Pensieri aggressivi, tentazioni di evitamento e di abbandono: un aiuto ad accogliere e riconoscere i sentimenti degli insegnanti.

Ribadisco che questa è una posizione difficile ed impegnativa da sostenere, perché costringe l’adulto impegnato in un progetto educativo a confrontarsi con i propri limiti e soglie di tolleranza.

Nel corso dell’adolescenza i giovani tendono, infatti, a mettere a dura prova gli adulti a cui sono affidati. Essi debbono, infatti, essere disposti a subire, e capaci di sostenere, i duri attacchi che vengono inferti dai giovani, non in quanto buoni o cattivi, ma in funzione dell’ambivalenza connessa ai compiti evolutivi di separazione e differenziazione che sono propri di questa fase del ciclo della vita. Solo se l’adulto è in grado di riconoscere tale dimensione di fisiologica provocazione e riesce a svolgere un’opera di contenimento, senza farsi travolgere rispondendo collusivamente a tali attacchi, potrà svolgere per l’adolescente quella funzione di limite che può diventare una risorsa per il giovane, che ha in corso una progressiva sperimentazione dell’accesso alla propria identità.

Non è purtroppo facile per l’educatore mantenere questa posizione che richiede un faticoso e continuo impegno di regolazione delle proprie risposte emotive. Non è, infatti, facile controllare il proprio coinvolgimento emozionale, per la profonda risonanza emotiva che le provocazioni possono produrre sulla percezione che ciascuno ha di se stesso e sull’immagine della propria identità.

L’adolescente, quando squalifica, svalorizza, risponde in malo modo, quando non fa quello che l’adulto gli chiede di fare o quando provoca con domande, con offese verbali, con atteggiamenti, e con comportamenti conflittuali, evoca in molti insegnanti pensieri aggressivi e tentazioni di evitamento e di abbandono. "Quello lo caccerei dalla classe", "Domani debbo incontrare di nuovo Giovanni, chi sa se ce la farò a sopportarlo". Sono questi pensieri e sentimenti da cui, come operatori, siamo stati spesso coinvolti e talvolta anche travolti.

Purtroppo molto raramente è offerta agli operatori del mondo della scuola o dei servizi, sia nel corso dei propri percorsi formativi che durante la loro attività professionale, la possibilità di essere aiutati non a negare tali sentimenti o a rimuoverli, perché incompatibili con il proprio senso etico e con la propria immagine professionale, bensì ad accoglierli e riconoscerli. Naturalmente questo può avvenire se al lavoro didattico viene anche affiancato un lavoro su se stessi svolto in uno spazio condiviso e protetto di espressione e monitoraggio dei complessi e conflittuali vissuti emozionali attivati dal lavoro con adolescenti, soprattutto se difficili.

Paure e desideri molto complessi, conflittuali, talora inconsapevoli nel lavoro con adolescenti difficili

Quando facevo riferimento alla necessità di individuare una teoria della mente, intendevo al vertice psicoanalitico, secondo il quale molti pensieri e comportamenti che assumiamo nel corso della nostra vita relazionale rinviano ad aspetti che sono anche fuori ed oltre l’ambito della nostra rappresentazione cosciente ed intenzionale e chiamano in causa dimensioni personali più profonde e molto spesso inconsapevoli.

Intendo, cioè, far riferimento alla dimensione emotivo-affettiva connessa agli elementi transferali e controtransferali che sono in gioco nella relazione educativa.

Come è, infatti, noto a quanti operano secondo il modello psicoanalitico, nell’ambito di ogni relazione sia essa tra medico e paziente o tra educatore ed adolescente, sono sottese complesse dinamiche emozionali che connotano l’incontro stesso. Diventa, quindi, utile riconoscere ed affrontare non solo i complessi vissuti transferali sperimentati dai giovani, ma anche gli altrettanto complessi e coinvolgenti vissuti controtransferali che riguardano gli operatori.

Quando si parla di controtransfert ci si riferisce anche alle potenti reazioni emozionali che si risvegliano nell’operatore/educatore come risultato della sua recettività ai sentimenti esperiti dall’utente/allievo.

L’incontro con adolescenti difficili (quali quelli coinvolti nel Progetto Chance) pone, quindi, gli operatori di fronte a paure e desideri spesso più complessi e conflittuali di quelli legati al manifestarsi della crisi adolescenziale in giovani dal passato meno traumatico e, quindi, diversamente connotati per l’adolescenti e per l’adulto.

Di fronte all'evocazione di sentimenti profondi l'operatore deve potersi interrogare e confrontarsi

La relazione con gli allievi evoca potentemente lutti legati ai propri nuclei di aggressività, di piacere, di desiderio, di timore che richiedono un riconoscimento ed un’elaborazione. Tali nuclei emotivo-affettivi permeano profondamente le concrete interazioni quotidiane e connotano le storie relazionali che da essi si sviluppano.

Diventa pertanto cruciale che l’operatore sia messo in grado di interrogarsi su che cosa prova quando si trova di fronte ad un giovane che lo provoca rifiutando ogni intervento a lui rivolto. Potrà essere in tal modo aiutato a comprendere meglio gli assetti difensivi di quel giovane, la natura della relazione che si è stabilita tra loro e l’effetto che lo studente esercita non solo sull’operatore ma anche, e soprattutto, sugli altri.

Ciò implica la necessità di offrire agli educatori la possibilità di entrare in contatto con i propri bisogni affettivi e, quindi, con il bisogno di conoscere e cambiare se stessi, per riuscire a capire e ad aiutare gli altri ad affrontare un cambiamento. La professionalità dell’educatore deve, pertanto, passare attraverso una formazione che li rende sensibili a rimanere in contatto con i propri bisogni mentali, di ordine intellettivo e di natura affettiva. Se questa è la relazione educatore allievo che vogliamo contribuire a creare è evidente che nei processi formativi dell’educatore diventa parte essenziale (forse preliminare e determinante ogni apprendimento tecnico-nozionistico) la autoconoscenza, la valutazione dei propri problemi emozionali, ed infine, il raggiungimento di una certa modificazione maturativa della personalità.

Un atteggiamento psicologico che aiuti la comprensione dell'altro

Sarà in tal modo offerta loro l’opportunità di acquisire "un atteggiamento psicologico", sensibilizzandoli alla possibilità di cogliere in se stessi la rilevanza che il proprio atteggiamento emotivo ha nel rapporto con lo studente. Ciò li renderà più disponibili a porsi questioni relative alla validità delle loro intuizioni rispetto agli studenti e ad interrogarsi se esse siano una risposta nei termini di quanto il giovane sta comunicando o se non si tratti, invece, di reazioni nei termini di quanto gli operatori stessi stanno trasferendo nella situazione.

Tutto questo, come più volte ribadito, non è facile da realizzare ma è una condizione necessaria per acquisire una comprensione profonda rispetto a se stessi, ai propri movimenti emozionali, a quelli dell’utente ed alla natura della relazione che si sta portando avanti.

L'autosservazione attraverso il gruppo: uno strumento permanente di conoscenza, di attribuzione di senso e significato

Molto utile appare, in questo senso, la funzione di un lavoro di gruppo ad orientamento psicoanalitico che offre la possibilità ad ogni singolo membro di entrare in contatto con il proprio mondo interno e di autosservarsi e, così facendo, di trasformarsi, con l’aiuto di tutti i membri del gruppo, e di formarsi. Secondo tale ottica la formazione avviene attraverso un osservarsi non soltanto con i propri occhi ma con gli occhi di tutti i membri del gruppo. Un tale spazio è in grado di garantire agli operatori impegnati uno spazio-tempo di confronto con l’esperienza di altri colleghi impegnati nello stesso compito, di riflessione su quanto è accaduto ed elaborazione delle emozioni da cui spesso si è travolti, onde evitare, o almeno limitare, i nocivi e collusivi coinvolgimenti emotivi che possono scatenarsi con tali utenti. Il gruppo risulta, infatti, un necessario strumento di lavoro in quanto supporta gli operatori e li induce a prendere coscienza di contenuti interni attinenti ai complessi e spesso molto conflittuali vissuti emozionali attivati nella relazione con adolescenti soprattutto se "difficili" perché emozionalmente deprivati.

Sono proprio le inconsapevoli difficoltà emotive, attivate dal lavoro con adolescenti difficili, a rendere indispensabile l’organizzazione di tale attività gruppale finalizzata ad esaminare le vicissitudini relazionali. Tale lavoro di gruppo non si propone come attività terapeutica ma ha la funzione, chiaramente espressa e contrattualmente sancita, di diventare uno strumento permanente di conoscenza, di attribuzione di senso e significato e di formazione attraverso l’osservazione del proprio operato.